L’ Italia delle complicazioni Cancellate 10 Leggi, ne nascono 12

by redazione | 2 Aprile 2014 9:51

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Una cosa simile forse non potrebbe accadere nemmeno nell’isola di Atrocla, parto della fantasia del geniale scrittore polacco Alexander Moszkowsky, dove la burocrazia è talmente opprimente da tenere occupata tutta la popolazione per l’intera giornata e metà della notte a compilare moduli. In Italia, invece, succede tutti i momenti che un trasporto eccezionale deve andare via terra da una parte all’altra della penisola: ogni volta che si attraversa una frontiera regionale, si deve chiedere il permesso compilando gli appositi formulari. Rigorosamente tutti diversi, ovvio, da Regione a Regione. Come se l’Italia non fosse da un secolo e mezzo uno Stato unitario, ma una somma di staterelli qual era ai tempi di Cecco Beppe. Ed è già tanto che l’autista non debba pagare ogni volta «un fiorino», come capita nel film «Non ci resta che piangere» a Roberto Benigni e Massimo Troisi, catapultati nel Medioevo, alle prese con un ottuso doganiere.
Fra le perle che in tre mesi e mezzo di audizioni ha collezionato la commissione parlamentare bicamerale per la Semplificazione presieduta da Bruno Tabacci, eccone una particolarmente brillante. Simbolo non soltanto delle follie burocratiche, ma anche di come siamo riusciti a complicarci la vita scimmiottando il federalismo. Folgorante è la metafora, contenuta nella relazione conclusiva approvata lunedì sera all’unanimità dai presenti, che paragona l’Italia al Gulliver di Jonathan Swift, imprigionato a terra dai tanti fili sottilissimi dei Lillipuziani. I quali, argomenta il rapporto, vanno sciolti uno ad uno se si vuole far ripartire il Paese. Una immagine, peraltro, a cui ricorreva frequentemente anche l’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa.
La battaglia contro la burocrazia ha presentato in passato risvolti grotteschi, e risultati inesistenti. Se è vero che dal 1994 al 2008 a 5.868 misure di semplificazione hanno replicato 6.655 misure di complicazione, vale a dire 787 in più, sono servite a ben poco le norme successivamente varate nel tentativo di ridurre l’enorme macigno delle nostre leggi (già vent’anni fa Sabino Cassese sosteneva che fossero 150 mila, contro le 7.325 della Francia e le 5.587 della Germania). Per Alessandro Pajno, che ha studiato a lungo la faccenda, «la riduzione dello stock normativo, che pure era un obiettivo importante, ha mostrato i suoi limiti e ha assunto un valore prevalentemente spettacolare ma non di sostanza riducendosi all’eliminazione di norme che non risultavano in concreto più applicate». La tagliola è dunque calata inutilmente su 67.872 atti normativi di varia natura, già inutili.
Decisamente più importante è quello che continua a verificarsi tuttora. Chi ha ancora negli occhi l’immagine della catasta di «350 mila leggi inutili» bruciate quattro anni fa in una caserma dei Vigili del fuoco con il lanciafiamme dall’ex ministro Roberto Calderoli, dovrebbe sapere che oggi, secondo i dati forniti dalla Corte dei conti alla commissione Tabacci, per ogni dieci norme abrogate ne entrano in vigore dodici nuove di zecca. Senza che molte di esse, però, riescano mai a diventare operative: causa il gioco perverso dei decreti attuativi regolarmente dimenticati. Si racconta nella relazione di cui stiamo parlando che al 4 febbraio scorso erano stati varati appena 462 adempimenti dei ben 1.277 necessari per mettere in moto le leggi approvate durante i governi di Mario Monti ed Enrico Letta. Poco più di un terzo. Il problema, dice il sottosegretario alla Presidenza Giovanni Legnini, è spesso legato alla previsione, contenuta nella norma uscita dal Parlamento, che quei decreti vengano emanati «di concerto» fra vari ministeri. Previsione che molte volte «si rivela strumentale a rendere difficoltosa o impossibile l’adozione dell’atto, vanificando così tutte quelle norme che si limitano a rimandare a un successivo atto la definizione di determinate misure». Insomma, una tela di Penelope smontata senza neppure essere tessuta. L’ex premier Romano Prodi ha ricordato un mese fa a Bologna che ci sono provvedimenti di liberalizzazione del primo pacchetto Bersani approvati nel 1997 che aspettano ancora le disposizioni essenziali per attuarle.
«Le norme sempre più dettagliate, lungi dal rivelarsi efficaci», aggiunge la relazione della commissione Tabacci, «sono state fertile terreno di coltura per un contenzioso giurisdizionale arrivato a livelli insostenibili quando non di diffusi fenomeni corruttivi». Mentre «la complicazione normativa ha consentito alla struttura burocratica di sviluppare una efficace strategia difensiva per le responsabilità penali, trovando rifugio nella copertura legislativa».
Il tutto alla mercé anche di un regionalismo spesso dagli aspetti assurdi, come testimonia appunto il caso dei trasporti eccezionali. Referenti diversi, procedure diverse, perfino moduli diversi. Lo sportello unico delle imprese, per dirne una. «Istituito nel 1998 e non ancora pienamente efficace», ha denunciato il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi, indicandolo come esempio di «tortuosità e lentezza dei processi di riforma». A cui contribuisce l’insensata frammentazione delle competenze, che determina anche costi e handicap competitivi astronomici per le imprese. Con lo sportello unico pienamente funzionante, tutte le pratiche di un intero anno a carico del sistema produttivo si potrebbero risolvere con meno di dieci milioni, a fronte delle diverse centinaia spese oggi.
La Federdistribuzione ha calcolato che l’1,15% del fatturato del commercio si volatilizzi ogni anno per spese di burocrazia: 1,4 miliardi l’anno. Mentre l’associazione dei trasportatori Confetra ha rammentato che secondo l’Ocse sono necessari in Italia mediamente 19 giorni per un’operazione di export, contro i 10 di Francia e Spagna, i 9 della Germania e addirittura i 7 dell’Olanda.
Ma non crediate che siano tutte rose e fiori quando invece le competenze regionali risultano meno coinvolte. Perché se quelle hanno certo complicato (e non poco) la vita di strumenti quali lo sportello unico, anche l’arretratezza tecnologica dell’amministrazione ci mette del suo. Su questo terreno si è perso un sacco di tempo per cose insensate: basta considerare che in vent’anni si è cambiato per ben quattro volte il nome dell’organismo pubblico che se ne deve occupare. Dall’Aipa, Autorità per l’informatica, si è passati al Cnipa, Centro nazionale per l’informatica, alla DigitPa, e infine all’Agenzia per l’Italia digitale.
La conseguenza è un confronto avvilente nella qualità della nostra infrastruttura con quella dei nostri concorrenti. Mentre l’agenda digitale, che avrebbe dovuto rivoluzionare i rapporti di cittadini e imprese con la controparte pubblica, per esempio mettendo in rete tutte le amministrazioni consentendo l’archiviazione di tutti i documenti solo in formato elettronico, è sostanzialmente al palo. A un anno di distanza, dice un monitoraggio del Servizio studi della Camera, sono stati adottati solo 17 dei 55 adempimenti necessari. Inutile allora stupirsi di quanto ha denunciato davanti alla commissione Tabacci il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, rammentando come già nel 2011 fosse stata «adottata una norma che sanciva il principio dell’acquisizione d’ufficio» dei documenti già in possesso delle pubbliche amministrazioni. «Peccato che, salvo lodevoli eccezioni», ha concluso, «la prassi degli uffici non si sia uniformata a questo principio».

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