Occupy Hong Kong i ribelli anti-Pechino
HONG KONG DAVANTI ai vecchi moli di Wan Chai scorre uno degli spettacoli più sconvolgenti di oggi. Migliaia di navi spostano ogni giorno un decimo della ricchezza, pulita e sporca, del mondo.
DAVANTI ai vecchi moli di Wan Chai, nel Mar Cinese Meridionale, scorre uno degli spettacoli più sconvolgenti di oggi. Migliaia di navi, portacontainer, chiatte, ferries, giunche, aerei ed elicotteri, spostano ogni giorno un decimo della ricchezza, pulita e sporca, del mondo. Tra Kowloon e il Central, l’istinto per gli affari ormai è genetico. In meno di due secoli, grazie all’oppio e ai soldi che l’hanno poi sostituito, pirati e mercanti hanno trasformato il pestilenziale delta del fiume delle Perle nell’asettica metropoli-azienda più competitiva del pianeta. Questo miracolo spaventoso, celebrato dal cemento che ricopre ogni centimetro di terra e di acqua, è il prodigio di due maghi: gli inglesi, che qui hanno regnato per oltre 150 anni, e i cinesi, rientrati in possesso di casa loro nel 1997. Solo una stratosferica montagna d’oro, dopo il crollo dell’impero giapponese, ha evitato che il forzato abbraccio tra Occidente e Oriente si sia risolto in un’altra guerra. Pechino ha vinto, Londra non ha perso del tutto, la febbre degli interessi ha sostituito i conti con la storia: l’esperimento più spietato di fusione tra comunismo e capitalismo, tra dittatura e democrazia, minaccia così di scatenare ora il terremoto capace di distruggere un sistema ideato per assorbire le pressioni più violente dello sviluppo globale.
A scuotere l’ex “cortina di bambù” è la clessidra che consuma i logorati patti dell’universo di ieri, che Deng Xiaoping sintetizzò nel marchio «un Paese due Sistemi ». Nel 2047 Hong Kong tornerà totalmente Cina: «un Paese, un Sistema». Prima però, nel 2017, sarà la cavia di un altro esperimento senza precedenti: le elezioni in un’icona della libertà a termine, incastonata dentro il simbolo dell’autoritarismo senza fine. Le regole del voto si decidono adesso: per questo nell’ex colonia, dove si guida a destra e l’inglese precede il mandarino su ogni scritta, le scosse già sconvolgono il quieto business dei grattacieli sotto il Peak e gli azionisti politici domiciliati a Pechino e a Washington.
«La dirompente novità — dice il giurista James To — non è certo che la Cina pretende di scegliere chi comanda. È che vuole illudere gli abitanti di Hong Kong, i cinesi e la comunità internazionale, di non farlo più». Un obiettivo straordinario: un regime democraticamente eletto grazie a una stampa pluralista controllata dalla propaganda. La leadership rossa, diciassette anni fa, aveva promesso elezioni a suffragio universale nel 2007. È riuscita a rinviare di dieci anni e il governatore della metropoli ha continuato ad essere nominato da un comitato di 1200 lobbisti selezionati da Pechino.
Ora però il tempo è scaduto e lo scontro esplode. È nato perfino un movimento, Occupy Central, che perfino nel nome si si rifà a quello che ha scosso Wall Street e la finanza globale. La Hong Kong democratica di giovani, studenti e intellettuali, sostenuta da Usa ed Europa, invoca il principio classico: una persona, un voto. Quella autoritaria di anziani e busines-smen, fedele alla madrepatria Cina, propone la via cinese: per candidarsi occorre
la firma del 2% degli elettori. «Una preselezione farsa — dice Tai Yiu-ting, leader del movimento Occupy Central — che consegna gli eleggibili nelle mani del potere comunista. Per la prima volta nella storia, una democrazia verrà riassorbita da una dittatura e una popolazione sarà costretta a votare candidati proposti da un partito-Stato».
Il problema è che Hong Kong, oltre che un paradiso fiscale globalmente accettato, è la cassaforte finanziaria della seconda economia del secolo. Può diventare, nell’indifferenza collettiva, il modello universale di una nuova democrazia antidemocratica alimentata di un nuovo capitalismo comunista? «La violenza a cui assistiamo — dice il capo della federazione degli studenti, Joshua Wong — suggerisce che il prezzo sarà altissimo e che non lo pagherà soltanto l’Asia». Il primo è la libertà di stampa e di parola. L’associazione dei giornalisti di Hong Kong ha denunciato che questi valori «nella regione hanno toccato i minimi storici» e che «le telefonate della censura di Pechino nelle redazioni ormai sono quotidiane». I giornalisti indipendenti vengono licenziati, i direttori rimossi. Agli editori dei media critici viene levata la pubblicità, agli altri
sono concessi incarichi politici e appalti del potere.
A fine febbraio due sicari, con un coltello da cucina, hanno tranciato nervi e tendini delle gambe a Kevin Lau, direttore appena cacciato dal Ming Pao. Il giornale aveva svelato lo scandalo dei conti correnti alle Isole Vergini dei leader cinesi. «I cronisti che resistono — dice Sham Yee-lan, presidente dei giornalisti di Hong Kong — diventano vittime delle triadi, o di criminali destinati a restare ignoti. Pressioni economiche, ricatti, pestaggi e censura ci hanno fatto precipitare dal 18° al 62° posto al mondo per la libertà di stampa». Le forze democratiche, più volte scese in piazza, lanciano l’allarme: normalizzare i media e far tacere gli intellettuali è la pre-condizione per imporre a Hong Kong false elezioni a suffragio universale, controllate da Pechino.
La realtà però è già un passo più in là. Professori e studenti sono in rivolta contro l’obbligo delle “lezioni di comunismo”, imposto dal governatore filo-cinese Leung Chun-ying. Le donne lottano contro l’invasione di puerpere del Guangdong, che accaparrano latte in polvere e letti nei reparti maternità. I 7 milioni di residenti insorgono contro i 40 milioni annui di turisti cinesi, ribattezzati “locuste”. «Improvvisamente — dice il sociologo Jonathan London — vengono al pettine i nodi più esplosivi. E non è un caso se la miccia parte ancora da piazza Tiananmen ».
Il 4 giugno sarà il 25° anniversario dalla strage del 1989, che bloccò le riforme democratiche a Pechino. In Cina il tema resta tabù, i dissidenti di un quarto di secolo fa sono in carcere, o in esilio. Centinaia però vivono nell’ex Victoria britannica, dove ogni anno il massacro viene ricordato dalle candele di mezzo milione di persone. «Negare elezioni vere — dice Wang Dan, ex studente ferito a Tiananmen — è parte del sistema che impone di censurare la stampa, di reprimere il dissenso, o di negare le violenze dell’89. Quando in gioco è il potere, il regime cinese
non può avvallare precedenti o derogare dalla repressione». Un sondaggio online, subito rimosso, ha rivelato che il 90% della popolazione di Hong Kong preferirebbe tornare sotto la Gran Bretagna piuttosto che «essere assorbito» dalla Cina e che 7 hongkonghesi su 10 non vogliono essere chiamati “cinesi” né perdere i diritti democratici.
«L’insofferenza contro il neo-nazionalismo patriottico — dice il commentatore Li Wei-ling, licenziato dalla sua radio — monta assieme alla pressione globale di Pechino. A Taiwan gli universitari hanno dovuto occupare il parlamento per denunciare la svendita dell’isola alla Cina. Giappone e Filippine sono a un passo dalla guerra per difendere il proprio territorio. Hong Kong è una tessera del mosaico: se la comunità internazionale non si muove, Pechino seguirà l’esempio di Mosca con l’Ucraina e l’Asia in guerra non sarà solo l’incubo dei mercati». Per gli Stati Uniti l’emergenza è già scattata. La scorsa settimana, alla vigilia del tour di Barack Obama in Giappone, Corea del Sud, Malesia e Filippine, i leader storici dei democratici di Hong Kong, Anson Chen e Martin Lee, sono stati ricevuti alla Casa Bianca dal vicepresidente Jo Biden.
La Cina ha reagito con inedita durezza, svelando un incontro che doveva restare riservato per diffidare gli Usa dall’«intromettersi nei nostri affari interni». «Hong Kong — dice il docente della scuola del partito, Rao Geping — non è uno Stato. È una regione cinese. Pechino non permetterà che qui scoppi una rivoluzione a colori finanziata dall’Occidente, come nell’Est europeo, in nord Africa, o in Medio Oriente. I pan-democratici hongkonghesi sono poco saggi a schierarsi con un’America che ha imboccato una strada pericolosamente sbagliata». Washington ha risposto invitando Londra, ex capitale della colonia conquistata nel 1841, a «intervenire per proteggere autonomia e democrazia di Hong Kong», come se il primo luglio di diciassette anni fa il «Britannia» non fosse salpato dall’isola con lord Patten e il principe Carlo a bordo. «La verità — dice l’attivista Leung Kwok-hung, fermato a Shanghai — è che la battaglia di Hong Kong per la libertà oggi riguarda tutti ed è appena cominciata».
Suffragio universale, no alla censura e verità su Tiananmen sono così le tre bombe della “regione amministrativa speciale”, dove i democratici annunciano nuove dimostrazioni e minacciano di occupare il
parlamento al grido di «Free speech, free Hong Kong». Forse è tardi e forse nessuno, né gli occidentali né i cinesi, nel porto commerciale più ricco del mondo, che da sempre preferisce i soldi ai diritti, può parlare a nome della libertà, o di una storia onestamente raccontata. I fatti dicono che il contratto a favore della dittatura, qui ha chiuso con una resa il Novecento, di comune accordo. Ma ora che la clessidra degli affari sta per esaurire i granelli di sabbia, anche i pirati di Repulse Bay, rivestiti da finanzieri di Admiralty, capiscono di non poter tenere più la bocca in Occidente e le mani in Oriente. E non rinunciano alla speranza che una lotta generosa per la democrazia possa inaugurare, proprio nei Nuovi Territori, il secolo del loro riscatto.
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