Opg della vergogna, non sarà l’ultimo rinvio

Opg della vergogna, non sarà l’ultimo rinvio

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L’«estremo ram­ma­rico» con cui alcuni giorni fa il Qui­ri­nale ha ema­nato il decreto legge n° 52 non esprime solo il disa­gio di chi — già nel luglio 2011 — aveva denun­ciato l’«orrore dei resi­dui ospe­dali psi­chia­trici giu­di­ziari, incon­ce­pi­bili in qual­siasi paese appena appena civile». La deci­sione del governo di riman­dare ancora di un anno la loro defi­ni­tiva chiu­sura, infatti, appare bor­der­line se misu­rata con il metro della Costituzione.

Nes­suno nega la com­ples­sità della pro­ce­dura in atto per il supe­ra­mento dei sei mani­comi cri­mi­nali ope­ranti in Ita­lia. Tut­ta­via, la straor­di­na­rietà di un decreto legge è, costi­tu­zio­nal­mente, sino­nimo di impre­ve­di­bi­lità. Ed è arduo con­si­de­rare tale una sca­denza nota da tempo, ori­gi­na­ria­mente fis­sata al 2011 dalla riforma della sanità peni­ten­zia­ria, salvo slit­tare — di decreto legge in decreto legge — al 31 marzo del 2013, poi del 2014 e ora del 2015.

Non sarà l’ultimo rin­vio. Non ser­vono doti divi­na­to­rie per pre­dirlo: basta uno sguardo alla rela­zione mini­ste­riale al par­la­mento sull’attuazione dei pro­grammi regio­nali per il supe­ra­mento degli Opg. Del resto, la Con­fe­renza delle regioni auspi­cava un rin­vio più lungo, al 1° aprile 2017. Né la sca­denza ora fis­sata è messa in sicu­rezza dalla pos­si­bi­lità per il governo di sosti­tuirsi alle regioni ina­dem­pienti: quel mec­ca­ni­smo era già nel pre­ce­dente decreto legge, ma non ha impe­dito il rin­vio che oggi regi­striamo. Cam­biano i fat­tori: il ritardo dei decreti inter­mi­ni­ste­riali neces­sari ad avviare i pro­grammi regio­nali, la len­tezza di talune regioni sulla tabella di mar­cia, i tempi biblici per le pro­ce­dure di gara e la rea­liz­za­zione delle nuove strut­ture. Ma il risul­tato è sem­pre lo stesso.

È un risul­tato che pone ulte­riori pro­blemi di costi­tu­zio­na­lità, per­ché le con­di­zioni cui costrin­giamo gli inter­nati in Opg sono inu­mane e degra­danti. E lo sap­piamo tutti, da quando la sera del 20 marzo 2011 Ric­cardo Iacona ha fatto entrare nelle nostre case, senza fil­tri e media­zioni, l’orrore medioe­vale della vita quo­ti­diana in Opg. Quel fil­mato è agli atti della Com­mis­sione par­la­men­tare d’inchiesta sul Ser­vi­zio sani­ta­rio nazio­nale della scorsa legi­sla­tura. Il regi­sta Fran­ce­sco Cor­dio ne ha tratto un film (Lo Stato della fol­lia) che ci costringe a guar­dare ciò che non vogliamo vedere.

Invero, da molto tempo, chi doveva e voleva sapere, poteva. Quella realtà, infatti, era stata denun­ciata dal Com­mis­sa­rio euro­peo per i diritti umani nel giu­gno 2005 e dal Comi­tato di pre­ven­zione della tor­tura nel set­tem­bre 2008. Ma già prima, nella XI Legi­sla­tura, la Com­mis­sione sanità del senato aveva segna­lato la grave dege­ne­ra­zione delle con­di­zioni degli Opg.

Eppure la dignità del sog­getto inter­nato non è bene sacri­fi­ca­bile, nep­pure in nome di esi­genze di tutela della col­let­ti­vità, come si legge nella giu­ri­spru­denza costi­tu­zio­nale. Da qui i rei­te­rati moniti della Con­sulta alle camere sulla neces­sità di supe­rare la deten­zione mani­co­miale: prima ina­scol­tati, ora poster­gati.
Chi cono­sce quella giu­ri­spru­denza sa anche sve­lare l’altra (finta) novità dell’ultimo decreto legge, lad­dove con­sente ai giu­dici di disporre l’internamento in Opg solo in assenza di altre misure ido­nee allo scopo. È una facoltà già pre­sente nei codici, impo­sta pro­prio da una serie di pro­nunce costi­tu­zio­nali. Anche per que­sta parte, dun­que, il decreto legge rici­cla come nuove norme già vigenti, per nascon­dere meglio ciò che in realtà è: lo spo­sta­mento in avanti di una sca­denza costi­tu­zio­nal­mente doverosa.

Quel decreto è, dun­que, una resa senza con­di­zioni. Siamo costretti a leg­gere ancora una volta in Gaz­zetta Uffi­ciale che l’Italia non è in grado di fare fronte ai biso­gni di circa mille inter­nati. Molti dei quali, peral­tro, dismis­si­bili per­ché non più social­mente peri­co­losi. Eppure ancora rin­chiusi, per­ché la fami­glia d’origine o le strut­ture sani­ta­rie ter­ri­to­riali non sono in grado di pren­dere in carico chi pure dall’Opg avrebbe tutto il diritto di uscire.

Così facendo, però, è la Costi­tu­zione ad essere vio­lata. Per­ché trat­te­nerlo signi­fica inflig­ger­gli una ingiu­sti­fi­cata deten­zione, negar­gli il diritto alla cura più ade­guata al suo stato di salute, riser­var­gli un trat­ta­mento gra­ve­mente dete­riore rispetto ai comuni malati di mente. Tra il 2010 e il 2012, le dimis­sioni dagli Opg hanno cono­sciuto un signi­fi­ca­tivo incre­mento. Eppure non basta, spe­cie se il futuro ci riser­verà l’ennesimo rin­vio. Ecco per­ché è neces­sa­rio — come pro­pone Anti­gone — inve­stire su que­sto fronte parte dei fondi stan­ziati per la rea­liz­za­zione delle nuove strut­ture, com­ple­tando quanto già la legge n° 9 del 2012 pre­ve­deva si dovesse fare «senza indugio».

Supe­rare gli Opg è costi­tu­zio­nal­mente neces­sa­rio. Si doveva fare prima. Si poteva fare meglio, per­ché la vera fol­lia giu­ri­dica è nella misura di sicu­rezza dell’internamento in mani­comi cri­mi­nali (e in que­gli altri buchi neri chia­mati case di lavoro e colo­nie agri­cole). Quando final­mente verrà supe­rata que­sta oscena ere­dità del codice Rocco, sarà sem­pre troppo tardi.


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