Il partito della crisi è di estrema destra
«Il partito della vita vera». Così Marine Le Pen definisce il suo Front National, movimento che ha più di un titolo per essere considerato l’esempio di maggior successo della proposta politica incarnata dalla destra populista in Europa. Nell’espressione «la vita vera», la leader frontista sintetizza infatti l’insieme di quelle tematiche che indicherebbero il crescente scollamento tra le élite politiche e il resto della popolazione. Scollamento su cui i populisti hanno puntato tutto.
Lo schema proposto è semplice, esprime una visione del mondo lineare, quasi una nuova ideologia. Da una parte c’è «la gente comune», i lavoratori, le piccole e medie imprese, la «patria», o se si preferisce lo Stato-nazione, le vecchie monete nazionali, l’identità e la tradizione considerate come l’ultima chance per poter declinare ancora un caldo e consolante “noi”; dall’altra ci sono le élite, nazionali ed internazionali, l’Euro, l’Unione europea, le multinazionali che delocalizzano all’estero o semplicemente chiudono le aziende per gettarsi nell’economia finanziaria, «l’immigrazione di massa» e «l’islamizzazione» che cambiano il volto di quartieri e città, la globalizzazione.
La dicotomia è secca, fotografata plasticamente, tranquillizzante nel suo estremo schematismo e in grado di sedurre, specie i più deboli, perché contrappone ciò che si conosce del passato a un presente incerto e a un futuro presentato come un buco nero da cui non ci si potrà salvare. A chi abita la vita vera, quella che dalla loro torre d’avorio le élite non vogliono vedere, o forse non sono più nemmeno in grado di percepire, fatta di disoccupazione e di impoverimento, di paura e insofferenza verso tutto ciò che è diverso o straniero, di solitudine e smarrimento anche emotivo, la destra populista offre risposte magiche, ma apparentemente efficaci, in ogni caso nette.
Il catalogo è presto fatto e prevede l’abbandono della moneta unica europea, quando non l’uscita tout court dalla Ue, il «patriottismo economico» declinato alle frontiere nella forma dei dazi da imporre alle merci straniere e, nella società, attraverso la preferenza nazionale, ovvero la priorità in materia di lavoro e servizi sociali da riservarsi ai locali sugli stranieri, il blocco totale dell’immigrazione o la sua ridefinizione in termini di quote, sul modello di quanto proposto nei mesi scorsi dal vittorioso referendum sostenuto dalla destra populista dell’Udc in Svizzera.
Queste, in estrema sintesi, le condizioni evocate per tornare al benessere di «prima»: un prima che indica sia l’epoca antecedente alla crisi globale che una sorta di passato mitico, una stagione di serenità e fiducia nel futuro che spesso viene fatta coincidere con il «quando ci sentivamo padroni a casa nostra», prima cioè che la società diventasse più articolata e composita anche per l’arrivo di molti lavoratori immigrati. Ad esempio la «Marsiglia di un tempo, dove si viveva tranquillamente», per dirla con Stéphane Ravier, il candidato del Front National eletto sindaco dei Quartieri nord della metropoli provenzale, la più grande periferia popolare di Francia.
Ci sono arrivati attraverso traiettorie diverse che tengono conto della storie nazionali e del percorso conosciuto da ogni singola formazione, ma è questo il punto d’approdo comune delle nuove destre populiste: le forze politiche che in tutta Europa si presentano oggi come «partito della crisi». C’è chi, come il Front National di Marine Le Pen o l’Fpö austriaco di Heinz Christian Strache, l’erede politico di Jörg Haider, affonda le proprie radici nella destra radicale e nostalgica del secondo dopoguerra o nelle ultime battaglie a difesa del colonialismo, o chi, come il Partito per la libertà di Geert Wilders in Olanda o la Lega Nord nel nostro paese, si è formato negli ultimi decenni principalmente come «blocco anti-immigrati», talvolta ridefinendosi, dopo l’11 settembre, in funzione anti-islamica.
Ma ci sono anche formazioni meno radicali, come l’United Kingdom Independence Party, la Nuova alleanza fiamminga o il Movimento dei Veri finlandesi, che partendo dalla messa in discussione, da destra, della Ue si spingono poi a rivendicare meno diritti per le minoranze o i «nuovi arrivati». Questo, senza considerare il rischio, indicato dall’evoluzione conosciuta negli ultimi anni dal Partito popolare europeo che ha accolto partiti come quello di Berlusconi o il Fidesz ungherese, che forme di populismo di destra governino in Europa anche senza bisogno di Marine Le Pen.
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