Qatar “Io, schiavo del Mondiale per cinque euro al giorno”
Doha, Qatar. LA carovana di camion, betoniere e pullman si dondola lentamente a perdita d’occhio lungo una pista parallela all’autostrada che attraversa il deserto, tra Doha e Al Khor. Non ci sono un inizio o una fine. Ci sono polvere e sole di giorno, il freddo notturno. E tutto intorno montagne di pietre, sabbia grigia. Cantieri. Scheletri giganti di cemento e acciaio fino all’orizzonte. Gru di ferro come stormi che salgono a sfiorare il cielo, nel
buio tabelloni luminosi e la data di fine lavori. «Qatar deserves the best», è scritto: il Qatar merita il meglio. Quello presto sarà uno stadio, là deve nascere un complesso di musei, poi la metropolitana e fra un paio d’anni una città da trecentomila abitanti, Lusail City. Qui la stazione ferroviaria, un parco divertimenti, una giungla di grattacieli di vetri e di specchi. Monumenti all’onnipotenza dell’uomo. Come piramidi moderne, su di uno sfondo lunare. La carovana dondola per decine e decine di chilometri, senza centro né principio. Si sgrana appena dopo il tramonto, torna a serrarsi all’alba. Da quattro anni e per molti altri ancora. Dicono si fermi il venerdì, che è giorno di preghiera, però non è vero. Perché a tutte le ore qualcuno nel deserto continua a trasportare il suo carico di pietre, di sabbia. Di schiavi.
I mondiali di calcio nel 2022 e di pallamano il prossimo anno. La “visione” del 2030, un piano nazionale che prevede per quella data un Qatar ancora più ricco, felice e sostenibile. Questo paese arabo, che ha il Pil pro-capite più
alto del mondo è una straordinaria, ambulante metamorfosi. Pronto a pagare un prezzo in denaro: 100 miliardi di euro di investimenti, tanto per cominciare. Ed un altro in vite umane. Quelle degli immigranti stranieri, venuti nel deserto ad inseguire un altro sogno. Il loro. Almeno un milione e mezzo, su di un totale di due milioni di abitanti. Indiani, cingalesi, filippini, iraniani, nepalesi, egiziani, pakistani. La maggior parte sottopagata, ricattata, sequestrata. Costretta a lavorare rischiando la vita, obbligata a vivere in tuguri. «In condizioni di schiavitù», denuncia un recente rapporto di Amnesty International.
Un migliaio di loro è morto in cantiere dal 2010, data in cui la Fifa ha assegnato la World Cup di calcio. Incidenti, fatica, attacchi di cuore. Ma prima del calcio d’inizio del torneo mondiale il bilancio salirà a 4.000 vittime. E sono le previsioni più ottimistiche.
Nostra Signora del Rosario è la sola chiesa cattolica, nella zona industriale a sud di Doha. Bisogna venire alla Messa del sabato delle 5.30, perché poi gli operai salgono sui pullman per i cantieri. La storia di Pascual, 38 anni, filippino, è esemplare: «A Manila mi avevano garantito uno stipendio di 1.400 ryal (280 euro), vitto e alloggio. Ho due figli, ho detto: sì, subito. Mi sono indebitato per sei mesi di lavoro. In Qatar ho consegnato il passaporto allo “sponsor”, che mi aveva fatto venire e garantiva per me. Guadagno meno della metà di quanto promesso. Inutile fare denuncia: non ho più i miei documenti. Lavoro 12 ore al giorno, non ho un’assicurazione o una tessera sanitaria. Se rinuncio a due mesi di stipendio, mi restituiranno il passaporto. Ma chi lo paga il ritorno?». Vive in un “labour camp” vicino al villaggio di Barwa. Niente acqua corrente, energia elettrica di rado. Dormono in 12 persone in piccole stanze che potrebbero ospitarne al massimo 4. Tyson, originario di Ceylon,
racconta che sul lavoro «se vuoi un elmetto di protezione, te lo scalano dalla stipendio. Se ti fai male, perdi un la giornata di lavoro. Però quando muori, ci pensa il padrone a mandare a casa la salma». Che fortuna. La legge locale vieta di lavorare tra le 11.30 e le 15 nella stagione più calda. Ma pochi fanno attenzione all’orologio, mentre spesso agli operai è vietato fermarsi per bere. Padre Selvaraj, il parroco di origine indiana di Nostra Signora del Rosario, scuote la testa: «Sono a centinaia di migliaia in queste condizioni. E ogni mese all’aeroporto ne arrivano trentamila nuovi». Spiega che il “business” è nelle mani delle piccole-medie imprese subappaltanti. «Non quelle europee o qatariote, quasi sempre in regola. Quelle indiane, libanesi, palestinesi, egiziane, piombate qui da qualche anno solo per fare affari: ufficialmente possono avere solo il 49% di un’azienda, in realtà pagano uno stipendio ad un prestanome e poi fanno quello che vogliono. Il risultato è peggio di uno tsunami».
Nel suo rapporto, Amnesty International denuncia che il 90% dei lavoratori immigrati è privato del passaporto, che il 20% riceve un salario diverso da quello promesso quando aveva lasciato il paese di origine, che il 21% riceve
il salario «ogni tanto, raramente o mai», che il 7% non ha un giorno di riposo settimanale. Schiavi. L’ambasciata nepalese ha denunciato la morte di 197 connazionali nel 2012, 185 nel 2013. Quella indiana parla di una media di 240 vittime ogni 12 mesi dal 2011. Le due etnìe insieme non arrivano al 40% dei lavoratori dell’edilizia (su un totale di circa 750.000, e le donne non arrivano a 7.000): ma allora la stima è di un migliaio di morti l’anno, dodicimila quando ai Mondiali sarà segnato il primo gol. Uno tsunami. Il tasso di incidenti — sempre secondo Amnesty — è il doppio rispetto all’Europa, quello di mortalità e disabilità in seguito agli infortuni dieci volte tanto.
In una recente visita, Sepp Blatter — numero uno della Fifa — si è detto «soddisfatto» delle assicurazioni fornitegli dalle alle autorità del Qatar. Che hanno aumentato di un quarto il numero degli ispettori del lavoro, intensificando i controlli e arrivando a sanzionare duemila società nel 2013. L’obiettivo è quello di introdurre, a partire dal 2016, un’assicurazione per i migranti, il pagamento attraverso istituti di credito e la facilitazione nell’ottenere la residenza, cosa che permetterebbe a ciascun operaio di acquistare ogni anno una carta sanitaria da 20 euro che permette uno sconto dell’80% sulle eventuali cure. Ma nel frattempo, invece di applicare la legge sullo schiavismo e il traffico di esseri umani — che prevede 7 anni di reclusione e 75.000 euro di multa — il governo locale preferisce punire un reato più lieve («Forzare una persona al lavoro, con o senza stipendio»): 750 euro di ammenda al massimo. Niente schiavi, prego: c’è un Mondiale di calcio alle porte.
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