« Io, rinchiuso da ventidue anni per una rapina da seimila lire »

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All’epoca c’erano ancora le lire, Mario ne aveva portate via seimila, tre euro di oggi, entrando in un bar con una mano in tasca atteggiata a pistola.
Fu dichiarato «momentaneamente incapace», ma pare che quel momento sia duro a finire visto che Mario è dentro da 22 anni.
Peraltro va detto che a Salvatore è andata peggio. Anche lui aveva fatto una rapina. Roba minima anche lui, come diceva Jannacci. Ma anche lui mentalmente «incapace»: e di anni dentro, di proroga in proroga e di perizia in perizia, ne ha fatti 36 filati. L’anno scorso, quando l’hanno mandato in comunità, quasi non ci credeva.
Ergastoli bianchi, li chiamano. Sono solo due tra le storie di Barcellona Pozzo di Gotto, sede di uno degli Ospedali psichiatrici giudiziari più tristemente famosi d’Italia: quelli che da oggi dovevano restare solo un brutto ricordo, se non fosse che no. A raccontarle pescando nella propria memoria è un gruppetto dei pochi fortunati riusciti a venirne fuori grazie all’impegno di un prete, don Pippo Insana, che qualche anno fa ha aperto nel pieno centro storico del paesone siciliano una Casa d’accoglienza pensata specificamente per loro. «La stragrande maggioranza dei detenuti negli Opg — dice — non è gente pericolosa ma solo bisognosa di cure. Ed è assurdo che per chiudere questi inferni, secondo i politici, se ne debbano per forza costruire altri uguali ma più piccoli: la nostra esperienza dimostra che basterebbe molto meno».
O molto di più, dipende dai punti di vista: cosa c’è di più facile, in fondo, che dichiarare uno «matto» e buttare la chiave?
Giorgio è uno dei suoi nove ospiti, sei fissi e tre in permesso. Ha 40 anni e la sua storia è questa: «Facevo il pizzaiolo in provincia di Taranto, ero piuttosto bravo. Per otto anni lo avevo fatto anche in Germania. A un certo punto, durante un ritorno a casa, sono caduto in un periodo di brutta depressione. E un giorno, nel mezzo di una discussione in famiglia, mi sono chiuso in bagno con una bombola di gas. Non avrei fatto niente di più, era solo un gesto teatrale. All’arrivo dei carabinieri sono uscito. Ma mi hanno dato l’incapacità al 75 per cento e condannato a cinque anni per tentata strage. All’Opg di Barcellona ne ho fatti quattro, l’anno scorso mi ha tirato fuori don Pippo e ora sono qui da lui».
Anche lui, come altri ospiti della Casa, lavora nel laboratorio di ceramica che il sacerdote ha avviato con l’aiuto del maestro d’arte Maurizio Calabrò.
L’associazione «StopOpg», che da anni invoca la chiusura di quelli che prima del politically correct venivano chiamati senza troppi complimenti manicomi criminali, continua a raccogliere in questo senso adesioni che vanno dai sindacati a don Ciotti, imprenditori e docenti universitari: «Non è un problema di edilizia carceraria — si legge in sintesi sul loro sito — e dire che servono nuove strutture è una scusa». Numerosi artisti, come all’epoca del Cavallo Azzurro di Basaglia, si sono mobilitati ciascuno a modo proprio: con poesie come quella di Rita Filomeni, scritta apposta per questo «primo aprile della proroga», o con disegni come quello di Adamo Calabrese, illustratore di Gibran, entrambi pubblicati in questa pagina.
Giuseppe, 41 anni, nella Casa di don Pippo è arrivato dall’Opg sette mesi fa: «Avevo violato una diffida, andando in un paese che mi era stato vietato in seguito a una lite in un bar. Non so perché mi hanno dato l’incapacità. Se non era per don Pippo ero ancora dentro, lo ricordo come un incubo: le feci per terra dei pazzi veri, le risse… ora faccio il guardiniere sia qui sia in città, possiamo uscire ogni giorno dalle sette di mattina alle nove di sera. Sto aspetando il mio fine-pena, ma intanto ho ricominciato a vivere».
Certo, c’è ancghe chi ha alle spalle reati più gravi. Come Antonio, 61 anni: «Dieci anni fa ho ucciso mia moglie, in una crisi di gelosia. Dopo diciotto mesi in carcere mi hanno mandato all’Opg, dove sono rimasto sette anni. Fino a otto uomini nella stessa cella. Ricordo soprattutto l’odore pesantissimo, le persone più agitate che venivano legate nude al letto con un buco per i bisogni che cadevano sul pavimento. Ricordo quelli che ho visto morire suicidi: chi con un sacchetto in testa, chi appeso a una sbarra».
Costantino invece, 40 anni, era finito dentro dopo una lite coi carabinieri. «Soffrivo di epilessia, ero senza dimora, al processo per direttissima dissero che dovevo essere mandato in una casa di cura. Mi ritrovai in una cella dell’Opg. Dovevo starci un anno, ci sono rimasto ventisei mesi». Per vivere, prima, faceva quadri e disegni che vendeva a cinque euro l’uno. Adesso ha imparato a lavorare la ceramica.
Paolo Foschini


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