Il romanzo-denuncia di Luca Rastello: una brutta storia nel mondo de “I buoni”

Il romanzo-denuncia di Luca Rastello: una brutta storia nel mondo de “I buoni”

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Dal punto di vista letterario, il romanzo “I buoni” di Luca Rastello (Chiarelettere) è un’opera di grande valore. Una trama originalissima; una conoscenza profonda dei temi trattati; uno stile di scrittura denso e febbrile, pieno di scarti ma sempre controllati; un’atmosfera inquietante e tesa, che resta tale fino all’ultima riga.
Ma a pochi giorni dall’uscita (il 27 marzo), ha generato una vivace discussione soprattutto per il soggetto scelto dall’autore e per l’obiettivo che il libro esplicitamente persegue: la denuncia dei difetti del volontariato “professionale”, la critica di ciò che non funziona nelle attività non profit e in generale nel mondo di coloro che vengono chiamati “i buoni”. Una denuncia che Rastello, uno dei più affermati giornalisti e scrittori d’inchiesta italiani, fa dimostrando di conoscere bene l’ambiente di cui parla.

Il romanzo comincia in una città dell’est europeo, nell’inferno dei ragazzi delle fogne. Aza (Azalea) è una giovane che ne è appena uscita, con tutte le sue cicatrici, grazie all’intervento di un’associazione. L’operatore umanitario Andrea la attira a sé, fino a diventarne l’amante, nel nord Italia, in una città mai nominata eppure mirabilmente descritta: una città “bastonata”, che aveva difeso con orgoglio il suo sogno di industria e che ora “vive un nuovo sogno (…) un futuro terziario promesso ogni sera e rimandato”. La porta in una ex fabbrica, ora piena di plexiglas e box in cartongesso, che è stata donata come sede all’associazione “In punta di piedi onlus”. Un “impero caritatevole” che si occupa di tossicodipendenti, malati di Aids, prostitute, detenuti, guidato da un prete carismatico dallo sguardo sofferente, don Silvano, che incarna “potere e noncuranza”, gira con la scorta perché combatte le mafie, è amico dei più grandi politici, giornalisti, magistrati, architetti, comici, rockstar.
Aza, intelligente e pura, sale con rapidità la scala de “I piedi”, fino a diventare la persona di massima fiducia di don Silvano. E scopre nel corso del romanzo tutto ciò che in questa parte del mondo dei buoni appare incomprensibile: l’autoritarismo e il narcisismo dei capi, la non coincidenza tra parole azioni, la spregiudicatezza e la gestione disinvolta degli aspetti economici…
Aza interiorizza il lessico particolare de “I piedi” – l’umiltà, lo “sporcarsi le mani”, la memoria che si fa impegno, il “seminare futuro”, i piccoli passi, il rispetto, il “metterci testa”, la fatica, il cammino, il primato della persona, la condivisione, la “frusta dell’oltre”… Ma impara anche a maneggiare i due codici che percorrono l’associazione: “quello palese che si recita ogni giorno come un rosario” e quello occulto, tanto più praticato “quanto più sei in alto nella piramide. Al primo si attengono gli illusi. Il secondo rende peccatori”.
Luca Rastello

Ci conduce in un mondo dove gli equilibri del potere interno cambiano in continuazione, dove i dipendenti non vengono licenziati, ma “accompagnati” e invitati a “guardarsi intorno”. Dove si resiste al massimo due anni, “oppure si rimane per tutta la vita”. Dove si può precipitare dalla propria posizione gerarchica per una parola sbagliata; dove la gestione degli stipendi, dei contributi e dei bilanci stessi nasconde varie irregolarità; dove ci si affida a un manager che poi finisce in carcere; dove il dipendente che rivendica i diritti minimi del lavoro è rimproverato di “sindacalismo”, perché “qui si condivide un progetto di vita, non sono i soldi che contano”. Dove insomma la retorica della legalità si scontra con la prassi e dove la morale è spesso doppia.
Quanto sa il prete-leader di tutto ciò? “A don Silvano spettano i principi”, si legge in una pagina. E se è vero che lui conosce tutti i meandri del suo “impero”, in effetti la conduzione effettiva e minuta sembra sfuggirgli di mano, o non interessarlo. Specie con l’avvento della “Grande rete per la legalità”, l’insieme di associazioni che il sacerdote mette insieme nella lotta contro le mafie. Il romanzo di Rastello tocca qui un altro aspetto cruciale del mondo dei buoni: la successione ai fondatori, il passaggio ai “nuovi” dei valori etici e delle consuetudini. E si fa ancora più impietoso: nella descrizione dei giovani rampanti che promuovono e amministrano la Grande rete; nella critica della sua studiata dialettica (“Chi non è con noi è contro di noi. E quindi con le mafie”). La “Grande rete” diventa “la nuova cosmesi del sudario dei caduti” e “un culto dei morti”.
Mentre il protagonista continua a girare, a commemorare, a celebrare, diventando un personaggio sempre più popolare e di cui i “giornalisti sono golosi”, l’associazione vive una crescente difficoltà e il romanzo arriva alle pagine più sconvolgenti. La prima è l’omelia di don Silvano ai funerali di una grande tragedia sul lavoro: le sue frasi commoventi e le sue invettive contro l’avidità il profitto a tutti i costi sono alternate alle parole di gestori e amministratori de “I piedi”: uno spiega perché la cooperativa vincerà l’appalto (“paghiamo di meno il personale, il nostro è lavoro motivato”); un altro ha trovato il modo di annullare i contratti a tempo indeterminato (“nel sociale si può tutto”); un terzo, a funerali finiti, domanda cinicamente se gli operai “sono poi risorti”.
La seconda pagina è quella che dà il senso al romanzo, in quanto opera che intende (anche) mostrare le profonde contraddizioni e le derive dell’universo dei “buoni”. Mentre Aza, ormai disorientata, scompare, Andrea spiega all’uomo che dalla città delle fogne è venuto a vendicarla qual è la vera funzione di persone come don Silvano, e perché è così amato: “Perché abbiamo bisogno di lui. Tutti. Abbiamo bisogno di convivere con il male, fingendo di combatterlo. Abbiamo bisogno di accettare un mondo inaccettabile che ci stritola, e abbiamo bisogno di abitarlo sotto anestesia … Ma abbiamo bisogno anche di fingere di combattere, e di amare la lotta. … Don Silvano garantisce che farà il lavoro al posto nostro. Tutti lo amano … Perché lui cavalca con le insegne del bene. … Combatte lui la battaglia che noi non abbiamo il tempo di combattere: non vincerai mai con lui, e neppure gli toglierai la maschera. … Noi siamo l’acqua in cui cresce la pianta, amico mio: lo difenderemo fino alla morte, pieni di gratitudine per il velo che mette tra noi e il mondo…”
Il libro di Luca Rastello può dare una lezione valida per tutti, che siano cittadini comuni o “operatori” del non profit. Il discorso pubblico attorno a questo mondo, così importante per la tenuta sociale, ma così appesantito da un’enfasi retorica a volte insopportabile, deve ripartire con urgenza coinvolgendo non solo gli addetti ai lavori. “I buoni”, insieme al recente “Contro il non profit” di Giovanni Moro, e anche a “L’industria della carità” di Valentina Furlanetto (2013), può aiutare in tal senso chi non lo vorrà considerare soltanto un romanzo pregevole.
Ma con una avvertenza: questo è un libro su/contro un preciso modello di azione sociale. Per quanto significativo e seguito da altre organizzazioni, esso è solo un capitolo di quella storia rivoluzionaria dell’impegno sociale che rimane, in gran parte, da scrivere. Una storia che non è fatta solo dai don Silvano.
Se non si può chiedere a un romanzo come “I buoni” di parlare di tutto il resto, è dunque opportuno leggerlo tenendo conto che “il resto” è composto da moltissimi uomini e donne, religiosi e laici, che usano altri linguaggi, lavorano tenendosi lontano dai microfoni e dai palazzi, non coltivano troppo le amicizie potenti, continuano a inventare risposte ai problemi sociali e a imparare dagli errori, rispettano nelle loro associazioni i diritti dei collaboratori, adottano gestioni democratiche, tengono i conti in ordine e senza scorciatoie.
La ricerca dell’intreccio giusto tra la bontà e la quotidianità è una delle sfide più difficili che l’uomo possa affrontare. Raccontarla oltre le santificazioni e le crocifissioni resta una sfida ancora più difficile. (st)
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