Sinai: in corso una «punizione collettiva»

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Il Sinai è una regione in guerra. È que­sta la prima impres­sione che abbiamo men­tre veniamo fer­mati e inter­ro­gati in decine di posti di blocco con­se­cu­tivi sulla strada tra Ismai­lia e al Arish. A pochi kilo­me­tri dal cen­tro urbano sco­priamo che anche al Arish ha il suo muro: fer­vono i lavori per la costru­zione della cinta mura­ria che tra pochi mesi cir­con­derà la prin­ci­pale città del Nord del Sinai e cor­rerà fino all’aeroporto inter­na­zio­nale. Per per­met­tere i lavori ven­gono con­ti­nua­mente bru­ciati ettari di olivi e peschi di cui è ricca que­sta regione di frontiera.

La poli­zia pro­mette che al Arish sarà più sicura con il nuovo muro, alto tre metri e chiuso da filo spi­nato. Saranno pre­vi­sti dieci var­chi per l’ingresso in città, equi­pag­giati con video camere e dispo­si­tivi anti-terrorismo. «La città sarà iso­lata per quat­tro mesi e le spese per la costru­zione del muro supe­re­ranno i dieci milioni di ghi­nee (12 milioni di euro, ndr). Nulla si può risol­vere con un muro e basterà un bom­bar­da­mento per distrug­gerlo», ci spiega Hus­sem, 29 anni, pro­prie­ta­rio di un caffé del cen­tro. «Il muro sepa­rerà le per­sone e non farà che accre­scere l’odio per l’esercito che arre­sta e uccide civili senza ragione. L’ex capo delle Forze armate, Abdel Fat­tah Sisi è un cri­mi­nale. Morsi non era la solu­zione ma non ha sparso san­gue come Sisi», con­ti­nua il gio­vane beduino.

UNA GUERRA SENZA ESCLU­SIONE DI COLPI

Sono quasi 500 i morti nel Sinai dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso (438 poli­ziotti e 57 civili, secondo le fonti uffi­ciali), men­tre cen­ti­naia sono i jiha­di­sti uccisi. «I sol­dati ren­dono la vita impos­si­bile ai civili, 6mila per­sone sono state arre­state nel Sinai negli ultimi mesi e molti di loro non sap­piamo dove siano. I mili­tari bru­ciano le fat­to­rie nei din­torni delle caserme per que­sto ora molti gio­vani locali appog­giano l’unica alter­na­tiva all’esercito: gli isla­mi­sti», con­ti­nua Mah­mud, 27 anni, stu­dente di inge­gne­ria all’Università di al Arish. Le auto­rità arre­stano e minac­ciano gior­na­li­sti stra­nieri ed egi­ziani, men­tre spesso cel­lu­lari e inter­net non fun­zio­nano per oltre 8 ore al giorno.

Ma la guerra nel Sinai non è come le altre. «Si tratta di una guerra con­tro i civili. Ci sono cer­ta­mente dei ter­ro­ri­sti ma l’esercito per­se­gue una puni­zione col­let­tiva», ci spiega Ismail Ale­xan­drani, ricer­ca­tore del Cen­tro per i diritti eco­no­mici e sociali del poli­tico comu­ni­sta Kha­led Ali. «Nel gen­naio 2014 per la prima volta nella sto­ria mili­tare egi­ziana, l’esercito ha attac­cato un aereo com­bat­tente di una mili­zia jiha­di­sta e non di un paese stra­niero», con­ti­nua Ismail. Nel Sinai i mili­tari hanno ucciso bam­bini, come nel vil­lag­gio El Lefe­tat, distrutto ospe­dali, moschee e scuole, come a El Dihi­nia. L’esercito con­ti­nua ad arre­stare giu­dici e imam che hanno giu­sti­fi­cato gli attac­chi con­tro la poli­zia dopo la depo­si­zione di Morsi.

L’ARRIVO DELLA FRATELLANZA

L’ascesa al potere dei Fra­telli musul­mani nel 2012 coin­ci­deva con l’indebolimento del ruolo del rap­pre­sen­tante gover­na­tivo in favore di un più ampio spa­zio con­cesso a nuovi arric­chiti con la media­zione di isla­mi­sti e sala­fiti. Nep­pure la Fra­tel­lanza sem­brava avere le redini di que­sta No men’s land, esclusi i cen­tri urbani di Al Arish e Bir el Abd. E così in occa­sione del rapi­mento di sette poli­ziotti nel mag­gio 2013, l’ex pre­si­dente Moham­med Morsi ammise di non sapere come si stes­sero svol­gendo le ope­ra­zioni e diede «carta bianca» all’esercito per la solu­zione del caso.
Eppure, Morsi è stato il primo pre­si­dente a incon­trare i rap­pre­sen­tanti delle tribù del Sinai nel palazzo pre­si­den­ziale al Cairo, con­qui­stan­dosi non poca stima da parte dei lea­der locali. «Da quel momento Morsi è apparso agli occhi dei lea­der tri­bali più rispet­ta­bile del Con­si­glio supremo delle Forze armate (Scaf)», aggiunge Ismail. Non solo, nell’anno di pre­si­denza Morsi, i Fra­telli musul­mani hanno in parte scom­pa­gi­nato la tra­di­zio­nale distri­bu­zione degli appalti pub­blici per­met­tendo la sigla di un con­tratto di 25 milioni di dol­lari con il Qatar alla tribù al Manai.

LE PRO­MESSE MANCATE

Morsi pun­tava così sulla distru­zione dei tun­nel per favo­rire un accordo con Qatar e Hamas con lo scopo di mas­si­miz­zare i bene­fici dei com­merci legali con Gaza. E così negli ultimi due anni, sono stati distrutti circa 1.300 tun­nel sot­ter­ra­nei che con­sen­ti­vano il pas­sag­gio dal Sinai verso Gaza di merci neces­sa­rie per il sosten­ta­mento della Stri­scia e usati per il con­trab­bando di armi, cemento, tabacco, vet­ture, ecc. Morsi aveva anche con­cesso il pas­sa­porto egi­ziano a oltre 13mila pale­sti­nesi. I docu­menti saranno pre­sto annul­lati in seguito alla deci­sione della magi­stra­tura egi­ziana di dichia­rare Hamas movi­mento ter­ro­ri­stico nel feb­braio scorso. In que­sto modo, Morsi avrebbe voluto met­tere in sicu­rezza il con­fine con Gaza. Non solo, i Fra­telli musul­mani hanno più volte annun­ciato l’intenzione di rifor­mare il diritto com­mer­ciale locale con­ce­dendo la pro­prietà ter­riera ai beduini: una vera rivo­lu­zione in una regione dove un beduino su due vive sotto la soglia di povertà. Invece, dopo il colpo di stato, Sisi ha impe­dito ogni com­mer­cia­liz­za­zione for­male e infor­male della pro­prietà ter­riera nella Zona C (5 kilo­me­tri entro il con­fine con Israele). Nep­pure il pro­getto isla­mi­sta, già con­ce­pito da Muba­rak, di una zona di libero scam­bio nel Sinai ha avuto seguito.

Se è vero che nella media­zione nell’attacco israe­liano a Gaza (Pila­stro di Difesa) dell’autunno 2012, il lea­der dei Fra­telli musul­mani ha assunto gli stessi orien­ta­menti verso Tel Aviv dell’ex pre­si­dente Hosni Muba­rak, Israele ha gioito il giorno della depo­si­zione di Morsi, men­tre gli Stati uniti abban­do­na­vano gli isla­mi­sti al loro destino. Da quel momento Tel Aviv ha appog­giato la «lotta al ter­ro­ri­smo» di Sisi, con l’assassinio in ter­ri­to­rio egi­ziano di Ibra­him Awi­dah, lea­der di Ansar Beit el Maq­dis (Abm) e il rapi­mento di Wael Abu Rida, lea­der del movi­mento pale­sti­nese della Jihad islamica.

TRA STATO E «TERRORISMO»

E così, si forma pro­prio nel Sinai l’alleanza tra Intel­li­gence mili­tare e isla­mi­sti radi­cali che ha pro­vo­cato gravi atten­tati in tutto il paese, incluse le tre esplo­sioni che hanno semi­nato il ter­rore nel cen­tro del Cairo il 24 gen­naio e la bomba al pull­man di turi­sti sud­co­reani del feb­braio scorso. Que­sto accordo è di vec­chia data. È stato for­giato con­tro l’occupazione israe­liana fino alla sigla del con­te­stato Trat­tato di pace tra Egitto e Israele (1981). Per anni l’esercito egi­ziano è stato per­ce­pito nel Sinai come l’unica alter­na­tiva ai mili­tari israe­liani, in un con­te­sto di impos­si­bile ricon­ci­lia­zione con lo sco­modo vicino.
Il Sinai è diven­tata la culla di gruppi jiha­di­sti. Uno di que­sti è pro­prio Abm, che ha riven­di­cato i prin­ci­pali atten­tati dina­mi­tardi, kami­kaze e con­tro uffi­ciali dell’esercito negli ultimi mesi. La novità è l’alleanza tra que­sti movi­menti con gio­vani beduini e con­trab­ban­dieri. «Men­tre i mili­tari arre­stano chiun­que senza motivo, i jiha­di­sti sono gli unici a scon­trarsi con l’esercito, per que­sto i beduini li accla­mano», con­si­dera Mah­mud, men­tre ci aiuta a supe­rare i chec­k­point della poli­zia sulla strada per Ismai­lia. Oggi, agli occhi della popo­la­zione locale, i jiha­di­sti sem­brano gli unici ad opporsi all’emarginazione delle popo­la­zioni beduine. Abm ha stru­men­ta­liz­zato lo scon­tro tra eser­cito e isla­mi­sti della Fra­tel­lanza. In un video su You­tube, lo scorso dicem­bre, il gruppo, sal­da­mente pre­sente tra le mon­ta­gne e nei deserti del Sinai, ha annun­ciato che la sua mis­sione è pas­sata dal lan­cio di mis­sili con­tro Israele e dalla distru­zione di gasdotti a una cam­pa­gna con­tro le forze armate egiziane.

I beduini sono le prime vit­time del peri­co­loso scon­tro poli­tico tra eser­cito, Fra­tel­lanza e delle sue derive jiha­di­ste. Anche il ricorso alla sha­ria (legge isla­mica) o al diritto tri­bale (urf), che qui è il prin­ci­pale mezzo di solu­zione delle con­tro­ver­sie, è stato stru­men­ta­liz­zato dall’una e dall’altra parte nel ten­ta­tivo di con­qui­starsi il favore della gente. «Nel 2012, fu l’esercito a con­vo­care nel quar­tier gene­rale dell’Intelligence mili­tare di al Arish, i lea­der della tribù Fawa­kh­rie e alcuni migranti Saidi (dell’Alto Egitto, ndr) per risol­vere un con­ten­zioso sorto per la costru­zione di una strada sta­tale», con­si­dera Ismail. Ora le cose sono cam­biate molto e se l’esercito fa terra arsa di ogni tribù locale, per la fami­ge­rata «lotta con­tro il ter­ro­ri­smo», gli isla­mi­sti mode­rati e radi­cali con­ti­nue­ranno ad accre­scere il loro seguito tra la popo­la­zione locale.


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