Il carcere «aperto» aiuta la sicurezza e la crescita

by redazione | 29 Maggio 2014 17:26

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Troppo spesso il dettato costituzionale in materia di pena è considerato un ideale utopistico da sacrificare sull’altare della sicurezza. È vero invece l’esatto contrario: il rispetto della Costituzione può essere la chiave di volta di una significativa riduzione della recidiva (fino a 9 punti percentuali), trasformando il carcere in una fabbrica di libertà, e non del crimine, nonché in un volano per la crescita economica del Paese. È quanto emerge dalla ricerca di due economisti, Giovanni Matrobuoni dell’Università di Essex e Daniele Terlizzese dell’Einaudi Institute for Economics Finance, avviata nel 2012 su impulso del Sole 24 Ore e con la collaborazione dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino. La prima in Italia che, su basi scientifiche, misura il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva.

A parità di pena da scontare nelle patrie galere, chi ha avuto la “fortuna” di trascorrere più tempo in un carcere “aperto” ha una recidiva inferiore di chi invece è stato detenuto più a lungo in un tradizionale carcere “chiuso”. Per ogni anno passato nel primo tipo di carcere, invece che nel secondo, la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali. Un abbattimento rilevante, con conseguenze importantissime in termini di risparmi, di miglioramento della sicurezza sociale e di riduzione del sovraffollamento carcerario. Poiché, infatti, ogni anno entrano in carcere 9mila persone e di queste una quota rilevante ha già alle spalle una precedente condanna, se la recidiva calasse in media di 9 punti percentuali gli ingressi diminuirebbero ogni anno di circa 800 detenuti.
È quanto si ricava dalla ricerca di Giovanni Mastrobuoni, dell’Università di Essex, e di Daniele Terlizzese, dell’Einaudi Institute for Economics Finance, avviata a settembre 2012 su impulso del Sole 24 Ore e con la collaborazione del Ministero della Giustizia che, con l’allora guardasigilli Paola Severino, ha aperto gli archivi del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) per consentire l’accesso alle informazioni necessarie a misurare – per la prima volta in Italia su basi scientifiche – il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva. Le conclusioni di M&T mostrano che il carcere “chiuso” – cioè la pena scontata interamente “dentro” a doppia mandata, in ozio, in condizioni di promiscuità e insalubrità – non produce maggiore sicurezza sociale, contraddicendo gli slogan e le scelte di politica securitaria degli ultimi decenni. I due economisti dimostrano che un carcere “aperto”, che incarni il mandato costituzionale della rieducazione del detenuto rispettandone la dignità e i diritti fondamentali, è in grado di ridurre la recidiva e, per questa via, la popolazione carceraria, contenendo i costi e aumentando la sicurezza dei cittadini. Di qui un’ulteriore conseguenza: investire sul carcere “aperto” significa investire sulla crescita economica di un Paese, poiché a una maggiore sicurezza sociale corrisponde un clima più favorevole agli investimenti, sia italiani che esteri.
Se poi tutto questo non bastasse, a spingerci nella stessa direzione è il richiamo del Consiglio d’Europa, dopo la condanna della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti anche a causa del sovraffollamento carcerario e di una politica penitenziaria inidonea a garantire il rispetto della dignità dei detenuti. Una condanna pesante, anche in termini economici, poiché i ricorsi pendenti a Strasburgo – congelati in attesa di misure strutturali – sono circa 4000 e, se accolti, si tradurranno in risarcimenti per decine di milioni di euro. Il 3-4 giugno è atteso il verdetto del Comitato dei ministri che da un anno e mezzo ci tiene “sotto osservazione”.
Lo studio di M&T si è concentrato sul carcere di Milano Bollate, avanguardia assoluta di carcere interamente “aperto” inaugurato nel 2000: celle aperte tutto il giorno, nessun sovraffollamento, giornate operose fatte di lavoro, studio, formazione professionale, attività ricreative e sportive, affettività e progressivo reinserimento nella società attraverso il ricorso ai benefici carcerari e alle misure alternative. Un carcere dove si cerca di applicare la legge e la Costituzione; dove tutti i detenuti sono chiamati alla responsabilità e all’autodeterminazione; dove la qualità della vita non è paragonabile alla stragrande maggioranza delle carceri italiane; dove, a fronte di 1.230 detenuti, si contano solo 430 poliziotti, poiché la sorveglianza non è concepita in modo tradizionale (monopolio esclusivo della polizia penitenziaria con conseguente marcamento a uomo: un poliziotto per ogni detenuto) ma in modo “integrato”, essendo condivisa con tutti gli operatori delle altre aree (educatori, volontari, operatori di rete, persone che partecipano ai progetti scolastici e di lavoro).
Per molti anni il “modello Bollate” è stato considerato una sperimentazione, se non addirittura una vetrina, e soltanto di recente l’Amministrazione ha cominciato a estenderlo ad altre realtà detentive nel loro complesso.
Se per ridurre il sovraffollamento occorre soprattutto abbandonare la cultura carcerocentrica della pena e puntare alle misure alternative, un contributo non secondario può venire dal trasformare il carcere – là dove è ritenuto sanzione necessaria – da luogo che produce recidiva (quindi criminalità) in luogo operoso e rispettoso della dignità umana, che produce libertà e sicurezza collettiva. culturale.
L’emergenza sovraffollamento e la minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione hanno spinto nella prima direzione, anche con i decreti svuota-carceri dei due precedenti governi e con l’approvazione della legge delega sulle sanzioni sostitutive (ancora però da attuare). Pur lentamente, qualche passo avanti si sta facendo anche nella seconda direzione ma populismi e demagogie sono sempre in agguato e rischiano di frenare il cammino. Inoltre, se l’emergenza è stata la molla per imboccare questa strada, la fine o l’attenuarsi dell’emergenza (intesa come sovraffollamento) rischiano di far abbassare la guardia. Perciò un’analisi rigorosa delle misure più efficaci è indispensabile per portare avanti il cambiamento e toglie qualunque alibi a tentazioni di retromarce.
Dal carcere di Bollate, quindi, si è partiti per misurare la recidiva dei suoi “ospiti”. Consapevoli della selezione operata all’ingresso, che rende il detenuto medio di Bollate non rappresentativo del detenuto medio di un altro carcere italiano, si è identificato l’effetto causale del “trattamento Bollate” sfruttando la variabilità, pressoché casuale, della durata della pena residua al momento del trasferimento in quel carcere: in sostanza, succede spesso che detenuti condannati alla stessa pena complessiva e ammessi a Bollate finiscano per scontarne lì una frazione diversa per ragioni legate ai tempi del loro trasferimento. Pertanto, osservando la diversa recidiva di quei detenuti, si può capire quale sia l’effetto di un “trattamento Bollate” più o meno protratto nel tempo. Un po’ quello che accadrebbe se a diversi pazienti con la stessa malattia e analoghe condizioni generali di salute venissero somministrate dosi diverse della medesima medicina e se ne misurasse poi l’effetto.
Questo tipo di analisi, utilizzando appropriate tecniche statistiche, porta a misurare la riduzione della recidiva associata alla durata, più o meno lunga, del periodo trascorso a Bollate, a parità di pena da scontare. Il risultato – una riduzione di circa 9 punti percentuali per ogni anno in più di permanenza a Bollate (e quindi in meno in un altro carcere) – dimostra appunto che un carcere rispettoso della dignità della persona e impostato sulla rieducazione del condannato consente di ridurre sensibilmente la recidiva e dunque contribuisce alla crescita del Paese in termini di legalità, sicurezza, risparmi e competitività.
Un’obiezione possibile è che la riduzione osservata, pur essendo una buona misura della risposta al “trattamento” degli ospiti di Bollate, non è altrettanto idonea a misurare la risposta al medesimo trattamento di un detenuto meno selezionato di quello che normalmente finisce a Bollate. Per rispondere a questa obiezione si è ripetuta l’analisi su un sottoinsieme dei detenuti di Bollate, i cosiddetti “sfollati”, ospiti occasionali lì trasferiti per ovviare temporaneamente al sovraffollamento di carceri limitrofe. Detenuti né scelti né selezionati (semmai, è possibile che la selezione avvenga in senso opposto, per la tendenza a sfollare le persone più problematiche), che in genere si fermano per periodi più brevi degli altri.
Ebbene, sfruttando di nuovo la variabilità casuale della durata della loro permanenza a Bollate, si è misurata la riduzione della loro recidiva, ottenendo un risultato per certi versi sorprendente: per ogni anno in più di pena scontato a Bollate (e in meno in un altro carcere) la recidiva si riduce di circa 14 punti percentuali. Trattandosi di un campione meno numeroso i risultati sono stimati con minore precisione, ma è significativo e interessante che l’effetto positivo del carcere “aperto” si manifesti addirittura in misura maggiore per detenuti considerati a priori meno promettenti (non essendo selezionati) e che, anche per la ridotta permanenza a Bollate, sono meno coinvolti negli aspetti più qualificanti del trattamento (formazione professionale, avviamento al lavoro, studio…). Sembra dunque di poter concludere che anche il solo fatto di garantire ai detenuti condizioni dignitose e un contesto responsabilizzante inneschi un processo riabilitativo. A ciò contribuisce anche – in una misura che si sta ancora cercando di verificare con maggiore precisione – l’esempio e il contatto con i detenuti “migliori”, considerati a priori meno propensi a recidivare, vale a dire l’influenza positiva sui detenuti più “cattivi” di un ambiente “più sano”.
Troppo spesso, nel nostro Paese, il dettato della Costituzione in materia di pena carceraria è visto come un ideale utopistico da sacrificare sull’altare della sicurezza. I risultati di questa ricerca dimostrano che è vero l’esatto contrario: proprio il rispetto della Costituzione può essere la chiave di volta di una significativa riduzione della recidiva, trasformando il carcere in una fabbrica di libertà e non del crimine.

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Le misure alternative
#ilcarcerecambiaverso Si deve e conviene

#ilcarcerecambiaverso. È l’hashtag che ci aspettiamo presto da Matteo Renzi per riabilitare l’Italia dopo la mortificante condanna di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti. Non misure spot né operazioni di immagine. Cambiare verso significa proseguire sul cammino avviato ma impegnandosi soprattutto in una battaglia culturale che ha al centro la Costituzione e i suoi valori, rendendoli “vivi”, come auspicato più volte dal Quirinale. Il contrario, insomma, della demagogia che ha ispirato decenni di politiche securitarie. Significa applicare con determinazione il dettato costituzionale, investendo su pene e misure alternative. Ma anche sulla qualità della vita in carcere. Investire sul carcere “aperto” – facendone un luogo operoso di lavoro, studio, attività ricreative, di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti – significa infatti investire sulla sicurezza sociale e sulla legalità e quindi creare un clima più favorevole agli investimenti italiani e esteri.
Non è un cammino in discesa, ma da oggi il governo ha un elemento in più da sfruttare: la ricerca degli economisti Mastrobuoni e Terlizzese che misura – per la prima volta in Italia su basi scientifiche – il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva (si veda articolo a pag. 23). Il risultato – riduzione di 9 punti percentuali della recidiva per chi trascorre più tempo in un carcere “aperto” e meno in un carcere “chiuso” – toglie alibi a omissioni e incertezze ed è uno straordinario contributo ad una svolta culturale. Il contributo del Sole 24 Ore per far cambiare verso al carcere. (D.St)

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