Fondo salva-status quo
Le innovazioni linguistiche sono spesso spie di profondi rivolgimenti sul piano materiale. Così è stato quando fra 2011-12 l’imposizione dell’austerità ha visto una proliferazione di termini tecnico-finanziari in una sorta di forzoso corso di recupero per studenti un po’ lenti di capitalismo finanziario: spread, bund, bond, rating, six pack, two pack, fiscal compact… comparivano anche delle sigle, poco comprensibili ai più, e piuttosto bizzarre: EFSF (FESF per gli italiani…), EFSM, ESM. Questi ultimi sono stati battezzati astutamente fondi salva-stati. L’ultimo di essi, il Meccanismo europeo di Stabilità, torna a far parlare di sé (essendo stato un po’ citato nel 2012 e quasi per nulla nel 2013).
Si tratta di organismi creati nell’emergenza della crisi del debito sovrano 2011–2012 per stabilizzare finanziariamente la zona euro con prestiti di capitali agli Stati in difficoltà; i primi due erano organismi temporanei, cui si sostituisce l’ultimo arrivato (detto per semplicità MES) che presenta caratteristiche sostanzialmente simili. Con la differenza che anziché una società di diritto privato è un vero e proprio ente intergovernativo legittimato da un emendamento al Trattato di funzionamento dell’UE (art. 136). La struttura organizzativa ricorda molto il Fondo Monetario Internazionale. I soci sono gli Stati stessi dell’eurozona che hanno sottoscritto un capitale di 700 miliardi. Che per inciso sono gli stessi beneficiari potenziali. La notizia, annunziata dal direttore Klaus Reglin, è che a inizio di maggio i membri hanno finito di versare il capitale iniziale di 80 miliardi. Il resto verrà richiesto alla bisogna, proporzionalmente alla quote possedute (ovviamente la Germania fa la parte del leone).
Il primo inghippo consiste nel fatto che i prestiti ai paesi in difficoltà saranno sottoposti ai soliti programmi di aggiustamento economico: tagli al sociale, privatizzazioni, licenziamento di dipendenti pubblici, riduzioni salariali, ecc. Vedendo il film della Grecia di oggi ed essendo la stessa regia, non dovrebbero esservi molti dubbi in merito.
Più sottile la questione da dove verranno i soldi. La legge di ratifica prevede che per la parte restante di essi (l’Italia per esempio, uno dei maggiori contribuitori, ha versato 14,3 miliardi ma la sua quota totale è di 125 mld) si possano emettere titoli di stato. Creando altro debito insomma.
E non finisce qui. Perché è esplicitamente previsto all’art. 21 c.1 del trattato istitutivo che il MES «è autorizzato ad indebitarsi sui mercati dei capitali con banche, istituzioni finanziarie o altri soggetti o istituzioni». Il capitale dato dagli Stati (con l’indebitamento) è solo la base che serve a gettarsi in operazioni finanziarie per raccattare il contante da prestare agli Stati in difficoltà.
Le linee guida di tale panorama di indebitamento permanente sono abbastanza definite da capire che il riferimento principale resta il magico mondo dei capitali privati. Se poi si considera che banche, istituzioni finanziari e simili sono normalmente i creditori degli Stati in difficoltà, e che nei curricula delle figure chiave del MES compaiono incarichi presso i più blasonati sacrari della finanza (Hsbc, McKinsey, JPMorgan, InterMoney…) il cerchio si chiude. Il sistema, tassello della nuova governance economica europea (accanto a Fiscal compact, Unione Monetaria, Unione Bancaria e regolamenti di bilancio) è sostanzialmente un modo di estrazione di valore per tenere in vita i circuiti della finanziarizzazione seppellendo i «beneficiari» di mortali misure da free market. E meno male che lo chiamano salva-stati…
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