India, plebiscito per i nazionalisti. Il tramonto della dinastia Gandhi

by redazione | 13 Maggio 2014 9:13

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NEW DELHI (India) — Si profila una svolta politica seria in India. Ieri, le lunghe elezioni (cinque settimane) sono terminate in un clima di eccitazione: ha votato il 66,4% degli 814 milioni di indiani che avevano diritto, la percentuale più alta di tutti i tempi. Gli exit poll — da prendere con prudenza ma unanimi sulla tendenza — dicono che l’uomo nuovo della politica indiana, Narendra Modi, ha vinto, forse a mani basse: sarà quasi certamente il nuovo primo ministro. Il partito del Congresso (dei Gandhi) ha perso, probabilmente la sconfitta più rilevante della sua storia. Si profilano cinque anni di governo che potrebbero essere all’insegna dell’efficienza ma che rischiano anche di essere ideologicamente divisivi. È una rivoluzione politica in cui la famiglia dominante nella politica di Delhi dall’indipendenza del 1947, i Nehru-Gandhi, rischia di prendere il viale del tramonto, costretta dall’ascesa spettacolare del figlio di un venditore di tè.
I voti saranno contati e annunciati il 16 maggio. E ieri, viste le precedenti esperienze deludenti, i media hanno preso gli exit poll con prudenza. Ciò nonostante, la svolta è evidente: si tratta di misurarne la portata e quindi le conseguenze. Modi ha condotto una campagna elettorale tutta centrata su se stesso, ha tenuto più di seimila incontri pubblici, ha viaggiato in media 2.500 chilometri al giorno con gli aerei e gli elicotteri che gli ha messo a disposizione il gruppo industriale Adani, che lo appoggia da tempo, ha usato i social media, milioni di telefonate, tecnologia 3D per presentarsi anche dove non era. Ha creato l’iperbole attorno all’idea di uomo nuovo, efficiente, del popolo e positivo per l’economia: la strategia ha pagato, l’«onda Modi» c’è stata.
Gli exit poll indicano che, sui 543 seggi del Parlamento (Lok Sabha), l’alleanza che sostiene Modi, Nda, ne avrebbe vinti tra i 272 e i 281, una maggioranza assoluta, minima ma che le consentirebbe di governare senza dovere cercare altri alleati: alle elezioni scorse, nel 2009, ne aveva conquistati 157. Il partito di Modi, il Bjp, da solo potrebbe essere arrivato a oltre 220, suo miglior risultato storico. Il partito del Congresso, che negli scorsi dieci anni ha guidato il governo, è crollato: individualmente ben sotto i cento seggi, minimo di sempre; e l’alleanza attorno a esso, Upa, sarebbe precipitata da 262 a poco più di un centinaio. Ora si tratta di aspettare venerdì prossimo e verificare se gli exit poll sono corretti. Alle scorse elezioni avevano sottovalutato il Congresso e sopravvalutato il Bjp. I calcoli di ieri, comunque, davano Modi vincente in tutti i gruppi sociali ed etnici esclusi i musulmani, tra i quali avrebbe però migliorato del 6% la performance del partito nonostante egli sia un nazionalista indù dichiarato. E tra i giovani avrebbe trascinato il Bjp dal 17 al 35%. I partiti locali hanno mantenuto una forza notevole, attorno ai 150 seggi. La nuova formazione dell’Uomo comune ha conquistato voti ma non ha saputo tradurli in seggi. E la sinistra comunista sembra avere registrato il risultato peggiore della sua storia.
Dopo dieci anni, il governo del Congresso uscirà dunque di scena. Non è stato un disastro totale. Ma, soprattutto nel secondo mandato, dal 2009, non ha introdotto le riforme economiche che gli venivano chieste, ha lasciato che la corruzione corresse ed è sembrato sempre meno interessato al buon governo. Modi prenderà le redini di un’India nella quale la crescita economica ha rallentato dal 9% l’anno a meno del 5%: promette riforme e di attrarre investimenti. La Borsa da giorni festeggia in attesa del cambio di governo e probabilmente oggi continuerà a farlo. Il nuovo leader dovrà però dimostrare di essere il primo ministro di tutti gli indiani e non solo degli indù: per l’intera campagna elettorale è stato accusato di essere un nazionalista rigido e pericoloso, che divide l’India lungo linee etniche e religiose. Il suo avversario diretto, Rahul Gandhi, è arrivato a dire che se vincerà ci saranno 22 mila morti, perché mette le persone le une contro le altre. Non probabile: per gestire un mandato elettorale massiccio e per consolidarlo, Modi sceglierà probabilmente una linea moderata all’interno. In politica estera, invece, tende verso Est, soprattutto verso il Giappone. Però non è nemico degli Stati Uniti, anche se Washington gli ha finora negato il visto d’ingresso a causa del suo presunto ruolo in una strage di musulmani nel 2002.
Guai seri, invece, in casa di Sonia Gandhi, la presidente del Congresso. La sconfitta è grave per i numeri e per come è avvenuta. Il candidato a primo ministro che ha lanciato, suo figlio Rahul, non si sente un leader politico, non ha mai voluto esserlo e ha fallito. Ora, la scelta che il partito storico della lotta per l’indipendenza, laico ha di fronte non è facile: ripartire da zero, cercare una guida diversa da quella della famiglia Nehru-Gandhi oppure ricorrere ancora una volta alla dinastia e puntare su Prianka, l’altra figlia di Sonia, carismatica e chiamata in soccorso nelle fasi finali della campagna elettorale? Il rischio è la perdita non rimontabile di influenza politica, sia del partito che della famiglia Gandhi.
Ma il messaggio dei 551 milioni che hanno votato è chiaro: hanno detto che l’India è cambiata.
Danilo Taino

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