Nigeria. Quella paura negli occhi delle ragazze rapite

by redazione | 13 Maggio 2014 9:49

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IERI , grazie all’impudenza dei loro persecutori, le abbiamo viste “le nostre ragazze” rapite, rivestite e velate al gusto di quelli, con gli occhi sbarrati dallo spavento, addestrate a pregare con le palme aperte ma non abbastanza da simulare un solo sorriso. Il mondo è ubriaco di petrolio, acqua, traffici di droga e armi, minerali rari, giochi della finanza.
CHE si combatta una guerra planetaria la cui vera posta è il controllo e la riconquista delle donne può sembrare una boutade, o un’iperbole. I signori di Boko Haram si sono premurati di renderlo evidente, come in un Manifesto. Centinaia di ragazze rapite dal dormitorio della loro scuola, una delle poche ancora aperte nello stato di Borno, subito dopo aver sostenuto gli esami di fine anno; e poi il capobanda che annuncia che le venderà a quattro soldi per farle schiave o mogli forzate (è la stessa cosa) fuori dai confini; e poi ancora il capobanda – vanesio, come tutti questi epici farabutti – che si dichiara magnanimamente disposto a scambiarle con i suoi adepti detenuti dal governo federale nigeriano, quelle che non si sono convertite, e mostra le altre, quelle «che si sono sottomesse». «Anzi, le abbiamo liberate», dice.
C’è una difficoltà, abbiamo imparato, a tradurre adeguatamente il titolo mezzo hausa mezzo arabo della banda, Boko Haram –vuol dire, più o meno, che ciò che è occidentale è peccaminoso, e vietato. Qualche etimologista inclina a pensare che il Boko storpi l’inglese book , libro – l’inglese è lingua ufficiale in Nigeria: così, questi fanatici del libro sacro da prendere alla lettera, sarebbero i vietatori del libro. L’occidente che aborrono – il loro fondatore, Mohammed Yusuf, guidava una Mercedes e negava sdegnato che la terra fosse rotonda – era arrivato in Nigeria con il colonialismo e ci è rimasto con le multinazionali del petrolio, ma anche col cristianesimo delle scuole e la bella storia sulla lapidazione mancata dell’adultera.
Il governo corrotto e inetto di Abuja ha trattato per anni le stragi di Boko Haram come affare di musulmani che si ammazzavano fra loro: un po’ come facevano i nostri governi con le guerre di mafia. Quando, ogni tanto, decidevano di esibire la propria repressione, emulavano la ferocia dei terroristi. Anche questa volta, ad Abuja per un po’ hanno fatto finta di niente, e anzi denunciato l’allarme sulle ragazze come un diversivo al loro balletto elettorale, come ha scritto Wole Soyinka, che avete letto qui ieri. Poi hanno chiesto aiuto agli occidenti, quello che trepida e prega per le ragazze violate, e quello che prega, Cina compresa, per il colossale serbatoio di petrolio e gas che la Nigeria possiede, ma molto lontano dal nordest. Per i Taliban di Boko Haram le bambine non devono andare a scuola, come per i loro colleghi afgani. Devono tornare a chiudersi dentro una galera domestica, o dentro la galera portatile del burka o del velo imposto. Comunque lo si traduca, l’occidente che Boko Haram vieta, maledice e condanna ha la sua essenza nella libertà civile e sessuale della donna, cui tutte le altre libertà sono debitrici: anche la Conchita Wurst che scandalizza i governanti russi.
Il ratto delle ragazze nel nordest della Nigeria è così vistoso ed esemplare che ha scosso il mondo, e ha suscitato una reazione commossa. Americani, inglesi, francesi, hanno offerto collaborazione. Israele ha proposto di partecipare alle ricerche delle ragazza sequestrate, e il presidente Goodluck Jonathan ha accettato. Ma ancora una volta ci si chiede, di fronte a questa volonterosa impotenza, per così chiamarla, come possa il mondo fare a meno di una polizia capace di prevenire o punire la malavita, quando la malavita lavori all’ingrosso. Negli stessi giorni in cui dura il sequestro, i suoi autori vanno avanti con gli attentati suicidi e le aggressioni armate, ben armate, distruggendo chiese, moschee, scuole, villaggi interi, ammazzando centinaia di persone alla volta, come a Gamboru Ngala lo scorso 5 maggio. In questi giorni, alla gara di persone comuni e personaggi famosi fotografati con l’appello “ Bring Back Our Girls ”, hanno fatto da contrappunto voci di malcontenti: per l’esibizionismo o l’ipocrisia supposta della campagna, perché “ben altro”, perché la guerra di Boko Haram ha fatto più di 12mila vittime, per il silenzio sulla devastazione del delta del Niger, per il silenzio o le complicità con la spietata tratta di ragazze prostitute dalla Nigeria del sud, quella cristiana e voodoo, che riempie i campi della Campania o i marciapiedi di Genova. E’ vero, tutto vero, e però inutile e fatuamente anticonformista.
Fra i milioni che si commuovono per le ragazze del villaggio di Chibok, molti si saranno informati e interrogati per la prima volta su una quantità di cose. Sulla Nigeria, così grande da contenere un quarto di tutti gli africani, così ricca da eccitare gli appetiti di occidente e oriente e così povera da regalare a una banda di fanatici i pretesti per proclamarsi paladini della gente. E sul mondo, in cui si combatte una guerra di liberazione delle donne, con le armi più diverse, come il Facebook delle donne iraniane che si fotografano con il vento fra i capelli. Boko Haram ha avuto tempo sufficiente a trasformarsi da una banda efferata di cialtroni in una banda di cialtroni che spadroneggia a cavallo dei confini di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger. L’islamismo jihadista africano si associa già, e più si associerà, con quello maghrebino, e la loro alleanza si salderà sull’odio per l’occidente, parola sempre più difficile da tradurre, se non per quel nocciolo duro, quella quintessenza, la libertà delle donne.

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