Piano Fiat bocciato titolo giù dell’11,7% “Debito troppo alto”

Piano Fiat bocciato titolo giù dell’11,7% “Debito troppo alto”

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NON c’è niente di più normale di una scivolata in Borsa, sotto una costellazione del genere. Anche dopo il crollo di ieri, meno 11,6%, Fiat Spa nell’ultimo anno è salita un quarto più di Piazza Affari e quasi di metà più della media degli altri costruttori di auto. Normale che dopo la corsa sospinta dalle attese, un titolo cada quando la notizia è consumata: chi ha guadagnato, vende e incassa.
MA COME sempre in quell’azienza, nel bene e nel male, la normalità non arriva molto più lontano di così. Sembra quasi che il Lingotto, ora in asse sempre più stretto con Auburn Hills grazie alla fusione con Chrysler, sia sempre condannata a spiazzare. In peggio o in meglio, le aspettative vengono sempre infrante e gli steccati del confronto con il mercato diventano sempre più mobili. Il dialogo fra gli analisti e Sergio Marchionne, amministratore delegato della nascente Fca (Fiat-Chrysler Automobiles) somiglia in certi momenti a una corrida nella quale i primi cercano di intrappolare il secondo. Non sarebbe la prima volta che Marchionne rompe il loro assedio e li sorprende con una soluzione che loro non avevano visto. Ma stavolta il capo operativo di Fiat-Fca dovrà rispondere in fretta ai loro dubbi: non solo perché sono quasi unanimi, ma perché sono basati sui fatti e ora ne va dell’assetto futuro del gruppo che nasce sull’asse Torino-Detroit. Non c’entra tanto il fatto che Fiat-Chrysler nei primi tre mesi dell’anno abbia tirato fuori un utile della gestione ordinaria di un quarto sotto alle attese, facendo ancora peggio in due mercati vitali come l’area Nord America e Messico e il Sudamerica. Queste esitazioni gettano solo un’ombra sulla praticabilità dell’audace piano di espansione delle vendite e dei profitti previsto fino al 2018, con gran parte dei progressi messi in conto solo alla fine del quinquennio: per crederci, osserva Fraser Hill
di Bank of America Merrill Lynch, «è richiesto un atto di fede».
Ma appunto, il terreno sul quale si gioca la corrida fra Marchionne e gli analisti è soprattutto altrove. Il debito industriale netto del nuovo gruppo italo-americano è salito a 10 miliardi di euro – un peso da molte centinaia di milioni solo in interessi ogni anno quando era di 6,6 miliardi ancora alla fine del 2013. Questo balzo era inevitabile, frutto com’è della fusione con Chrysler e degli oneri sanitari e pensionistici della casa di Detroit. Ma esso pone domande a cui per ora Marchionne ha scelto di non dare risposte precise: si è limitato ad assicurare che nel 2018 questo debito sarà ridotto da dieci a un miliardo. Thomas Besson di Kepler Chevreux osserva che il piano di riduzione del debito è «estremamente spinto verso la parte finale del programma, nel 2017 e 2018». Philip Watkins di Citi sottolinea che il Lingotto «ha il debito più alto nel settore automobilistico ». E Hill di Bank of America nota come l’assenza di qualunque piano di riduzione di questi oneri prima del 2017 comporti esborsi per vari miliardi solo in interessi da saldare ai creditori.
Marchionne è sotto pressione perché spieghi come uscirà da questo dilemma, a maggior ragione perché nel frattempo promette altri 55 miliardi di investimenti in cinque anni. Il quadro finanziario del primo grande gruppo italiano che diventa globale resta da chiarire. Anche se Fca farà davvero il balzo da 4,4 a 7 milioni di auto vendute, malgrado i soliti dubbi degli analisti e l’aver già mancato gli obiettivi del piano 2010-2014, la generazione di cassa non basterà da sola a riassorbire lo stock di debito. Alcuni si aspettavano che Marchionne vendesse Magneti Marelli o quotasse Ferrari a Hong Kong, per poi vendere metà del capitale pur tenendone il controllo. Ma per ora è escluso.
Il manager di Fiat-Fca sa che non è il momento di fare chiarezza e capisce anche che presto dovrà farlo. In questi giorni ha già ammesso che è «preoccupato» dalla nuvola nera del debito perché questo è «eccessivo». Ha anche aggiunto che «probabilmente la cosa più prudente è il ricorso a qualche tipo di strumento connesso a titoli azionari»: una discussione che dovrà tenere il board della nuova compagnia Fca. È un modo cauto per dire che il gruppo potrebbe emettere dei bond obbligatoriamente convertibili in azioni, un modo costoso di raccogliere capitale (ad alti interessi) che però non affonda il titolo in Borsa.
Se c’è qualcosa che Marchionne padroneggia alla perfezione è la finanza societaria e il suo messaggio è insieme vago e chiaro: se vogliono un grande gruppo globale, gli Agnelli tra poco dovranno mettere mano al portafoglio di famiglia.



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