Reddito. L’unità di misura della buona società

Reddito. L’unità di misura della buona società

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Sul tema del reddito di cit­ta­di­nanza (meglio reddito di base) la let­te­ra­tura è ora­mai ampia. E diversi sono i punti di vista con cui tale pro­po­sta viene esa­mi­nata e vagliata. Spesso, la tema­tica viene affron­tata anche per negare tesi altrui. Non fa ecce­zione a que­sta regola il breve pam­phlet di Gia­cono Pisani:Le ragioni del reddito di esi­stenza uni­ver­sale (ombre corte, pp. 91, euro 10).

Il punto di vista qui pre­va­lente è quello filosofico-giuridico e si col­loca all’interno di quella vasta let­te­ra­tura che trae ori­gine, da un lato, dal noto libro del filo­sofo sta­tu­ni­tense John Rawls sulla teo­ria della giu­sti­zia, dall’altro, dalla giu­sti­fi­ca­zione della pro­prietà pri­vata a par­tire dal con­tri­buto di Locke.

Secondo l’autore, la giu­sti­fi­ca­zione pri­ma­ria di un red­dito di esi­stenza uni­ver­sale sta nella sua (poten­ziale, n.d.r.) capa­cità di libe­rare l’individuo dal ricatto della povertà e rico­no­scere, così, la dignità della per­sona al di fuori dal mer­cato: è dun­que, stru­mento di eman­ci­pa­zione degli indi­vi­dui, in grado di tra­durre diritti for­mal­mente in essere in diritti diret­ta­mente esi­gi­bili. In que­sto sta la «giu­sti­zia sociale» del red­dito di esi­stenza uni­ver­sale: nel porre gli indi­vi­dui nella con­di­zione di poter deci­dere e pro­get­tare la pro­pria esistenza.

In secondo luogo, il red­dito di base rap­pre­senta una sorta di risar­ci­mento (inden­nizzo) della pro­prietà pri­vata. Poi­ché non tutti gli esseri umani pos­sono acce­dere alla «pro­prietà pri­vata», in quanto tale pos­si­bi­lità è solo ad appan­nag­gio di chi detiene forme di potere e capa­cità di espro­pria­zione uni­la­te­rale e discre­zio­nale in grado di gene­rare forme di enclo­su­res, il red­dito di base con­sen­ti­rebbe di ripa­gare l’ineguaglianza gene­rata dal dise­guale accesso alla stessa «pro­prietà privata».

Lo svi­luppo di forme moderne di enclo­su­res su ciò che oggi viene defi­nito il «comune» (da non con­fon­dersi con i beni comuni: ricor­diamo che il red­dito di base è remu­ne­ra­zione del comune, non sem­plice riap­pro­pria­zione dei «beni comuni») è anche una delle ragioni che meglio pos­sono giu­sti­fi­care, sta­volta sul piano più stret­ta­mente eco­no­mico, la neces­sità e la giu­sti­zia di un red­dito di base che deve per forza fre­giarsi dell’attributo: «incondizionato».

Se è vero che nel bio-capitalismo cogni­tivo con­tem­po­ra­neo il pro­cesso di valo­riz­za­zione si basa sull’espropriazione della coo­pe­ra­zione e della pro­dut­ti­vità sociale che emerge dalla messa al lavoro della stessa vita degli indi­vi­dui, della loro capa­cità di appren­di­mento e della loro stessa atti­vità rela­zio­nale (appunto il comune), allora oggi non ci tro­viamo solo di fronte alla neces­sità di inden­niz­zare l’esproprio e la vio­lenza della pro­prietà pri­vata, ma anche di remu­ne­rare il valore eco­no­mico che lo sfrut­ta­mento di tale coo­pe­ra­zione sociale genera.

Da que­sto punto di vista, lungi dun­que dal poterlo con­si­de­rare come una sorta di ammor­tiz­za­tore sociale (come alcuni fanno), il red­dito di base (solo se è incon­di­zio­nato) costi­tui­sce così uno stru­mento che favo­ri­sce la pos­si­bi­lità di opporsi a un ordine sociale fon­dato su una «razio­na­lità» del mer­cato che invece nasconde una sostanza di espro­pria­zione e sfrut­ta­mento della vita umana. Ciò con­sen­ti­rebbe di pen­sare a uno stato sociale non più con­di­zio­nato dal solo tempo di lavoro cer­ti­fi­cato (e quindi remu­ne­rato), dal momento che esso non può più essere con­si­de­rato come l’unica e pre­va­lente fonte di valore.

Su que­sto punto Pisani svolge una cri­tica che vale la pena di essere discussa. Egli afferma che l’idea di un red­dito di base come sem­plice remu­ne­ra­zione in grado di resti­tuire quella ren­dita che il capi­ta­li­smo è in grado di estrarre ex post dalla capa­cità auto­noma di orga­niz­za­zione del lavoro-vita odierno si muove in un’ottica troppo «eco­no­mi­ci­stica», per di più non in grado di inci­dere diret­ta­mente sul rap­porto capitale-lavoro che sta alla base del pro­cesso di valo­riz­za­zione. Tali limiti impe­di­reb­bero, secondo Pisani, di indi­vi­duare nella bat­ta­glia per il red­dito di esi­stenza una sorta di gri­mal­dello con il quale scar­di­nare alcune cate­go­rie della moderna teo­ria sociale del diritto, per aprirla a una dia­let­tica del rico­no­sci­mento che assuma il diritto come con­ti­nua­mente espo­sto ai rap­porti sociali.

Occorre con­si­de­rare, tut­ta­via, che se il pro­cesso di accu­mu­la­zione oggi si basa sulla messa a valore della vita, il «dive­nire ren­dita del pro­fitto» (secondo la felice espres­sione dell’economista Carlo Ver­cel­lone) è sem­pli­ce­mente la feno­me­no­lo­gia della crea­zione di ric­chezza e la sua misura indi­retta. Tanto è vero, che se il red­dito di base (incon­di­zio­nato, lo riba­diamo per libe­rarci da altre inter­pre­ta­zioni fuor­vianti) con­sente di espri­mere il diritto alla scelta del lavoro come espres­sione della pro­pria auto-determinazione, esso diventa anche poten­zial­mente sov­ver­sivo, in grado di opporsi alla dina­mica dello sfrut­ta­mento bio­e­co­no­mico che oggi carat­te­rizza il rap­porto capitale-lavoro.

Da que­sto punto di vista, il libro di Pisani si pre­sta a una duplice e felice inter­pre­ta­zione e dà man forte alla bat­ta­glia per un red­dito di base incon­di­zio­nato: alle ragioni di giu­sti­zia socio-filosofica si som­mano quelle di natura eco­no­mica. I due piani sono oggi del tutto inter­di­pen­denti e met­tono in crisi quelli che sono i pila­stri del sistema capi­ta­li­stico di pro­du­zione: la pro­prietà pri­vata, da un lato, come fonte della dise­gua­glianza moderna, e il rap­porto di sfrut­ta­mento che dal rap­porto capitale-lavoro tende assu­mere sem­pre più le forme del rap­porto capitale-vita. Non a caso si parla di red­dito di «esistenza».



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