by redazione | 11 Maggio 2014 17:35
LE ELEZIONI europee del 25 maggio fanno paura alle élite dell’Unione, ma lasciano indifferenti i popoli. Temendo un alto tasso di astensione e il successo dei movimenti e partiti definiti populisti, i leader europei fanno un ultimo sforzo per mobilitare gli elettori, stigmatizzando gli euroscettici e decantando l’Europa in tutti i toni. Ma per ora senza molto successo, a giudicare dal perdurante, massiccio disinteresse degli europei: secondo un recente sondaggio, il 60% degli intervistati riconosce di non sapere bene cosa rappresenti e quale sia il senso di questo voto. Come siamo arrivati a una situazione del genere?
Innanzitutto pesa, com’è evidente, la crisi economica, con le politiche di austerità e rigore e la sofferenza sociale che ne deriva. Per molti europei (tranne qualche eccezione, tra cui la Germania) da decenni l’Europa è sinonimo di bassi livelli di crescita, aumento della disoccupazione, delle disuguaglianze sociali e della povertà, sacrifici dolorosi e la sensazione di non avere un futuro. Tutto ciò toglie vigore al progetto europeo. A sessantaquattro anni dal discorso con cui Robert Schuman, il 9 maggio 1954, lanciava il piano che porta il suo nome – una delle basi essenziali dell’Ue – per la messa in comune delle risorse di carbone e acciaio, l’idea europea appare logora e appannata. Quest’idea poggiava su tre P: pace, prosperità, protezione. La prima è più o meno garantita, ma sembra ormai talmente scontata da far sottovalutare la sua portata storica, soprattutto alle giovani generazioni. Quanto alla prosperità e alla protezione, oggi sono incrinate – anche se siamo tuttora in forte vantaggio rispetto ad altre potenze (ad esempio l’America e la Cina). Malgrado ciò potremmo dire, parafrasando una celebre frase riferita da Enrico Berlinguer alla rivoluzione bolscevica, che la spinta propulsiva dell’Europa si è ormai esaurita.
Il motivo principale è politico. Innanzitutto, come si è detto e ripetuto a iosa, per ragioni inerenti all’architettura europea: l’assenza di una vera politica comune, dovuta tra l’altro alle divergenze tra gli stati membri sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Unione; le modalità del suo allargamento (il passaggio da quindici a ventotto membri in nove anni); l’impressione di una certa opacità nei processi decisionali ecc. Il risultato è che l’Europa, come ha scritto il politologo Yves Mény in un eccellente articolo uscito sull’ultimo numero del Mulino, è «un po’ come una mosca chiusa in un barattolo». Ma è intervenuto anche un altro fattore non meno destabilizzante, originato non dall’Ue ma dalle mutazioni più generali che investono le democrazie europee e si ripercuotono direttamente sull’Unione.
In quasi tutti i nostri Paesi si fa strada una crescente diffidenza nei confronti delle élite di ogni natura, e soprattutto dei responsabili politici. Ma i leader europei danno prova di una preoccupante sordità. È stato un grave errore, ad esempio, presentare molte candidature col principale intento di ricollocare o riciclare personaggi di cui ci si vorrebbe sbarazzare a livello nazionale. Peraltro, al tempo delle tecnologie moderne le istituzioni della democrazia deliberativa soffrono quasi ovunque di un deficit di legittimità e di attrattività. I parlamenti, in particolare, non catturano più l’attenzione; e ancor meno la cattura il parlamento europeo. Il rafforzamento dei suoi poteri non è stato spiegato agli elettori con sufficiente chiarezza. Per riaccendere l’interesse e il gusto per i lavori parlamentari non bastano le telecamere installate nell’emiciclo. Occorrerebbe immaginare altri mezzi; anche perché in parallelo si afferma sempre più un’esigenza di trasparenza e partecipazione. I cittadini vogliono essere ascoltati in permanenza, e non solo al momento delle elezioni. In questo senso, a livello dell’Unione tutto è ancora da inventare. Infine, la vita politica è sempre più mediatizzata e personalizzata, e ciò spiega il successo di eccellenti comunicatori e leader carismatici quali Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy o Matteo Renzi. La scelta di candidare alla presidenza della Commissione i capi delle famiglie politiche – Martin Schulz per la sinistra riformista, Jean-Claude Juncker per la destra, Guy Verhofstadt per i liberali, José Bové e Ska Keller per gli ecologisti, Alexis Tsipras per la sinistra radicale – costituisce una novità, che però al momento non sembra avere un grande impatto popolare.
C’è dunque da sperare che il 25 maggio il messaggio degli elettori – che rischia di essere traumatico, per l’astensionismo e per gli orientamenti del voto – venga ascoltato dai leader europei, e serva come un elettroshock, per ridare nuovo respiro all’Unione. Traduzione di Elisabetta Horvat
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