Si può criticare il capitalismo?

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UN TWITTER DI PAPA FRANCESCO HA SEMINATO IL PANICO FRA I TEO-CON E, PIÙ IN GENERALE, fra quanti intendono il capitalismo come la religione naturale dell’uomo moderno. «L’inequità è la radice dei mali sociali»: è il messaggio lanciato il 28 aprile dall’account @Pontifex. Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta. L’espressione è la sintesi di un più complesso periodo della Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica che costituisce finora il «manifesto programmatico» di Francesco. Il problema è che soltanto nella lingua italiana il termine inequità attenua la forza della condanna morale. In inglese inequality vuol dire ineguaglianza. In tedesco Ungleichheit si traduce con diseguaglianza. E così anche in spagnolo, la lingua del Papa: la parola inequidad non consente altra traduzione che diseguaglianza. Insomma, non c’è più una diseguaglianza iniqua da condannare e una più morbida da perseguire: la radice del male è l’«economia dello scarto» che rende gli uomini sempre più diseguali.
L’impatto non poteva non essere traumatico, soprattutto negli Stati Uniti dove si è scatenata immediatamente una vivace polemica sui social network. Stiamo parlando dei fondamenti stessi dell’etica del capitalismo. La diseguaglianza non è più un male necessario, il costo inevitabile di un meccanismo sociale che comunque assicura sviluppo e dividendi per la comunità. È la sua giustificazione morale a venir meno. E questo avviene mentre la crisi sta cambiando i paradigmi stessi della scienza economica. Non c’è soltanto Papa Francesco a delegittimare l’etica del capitalismo e l’idea di una sua «naturalità ». Ormai il fior fiore degli economisti spiega, numeri alla mano, che la crescita delle diseguaglianze nelle società avanzate sta favorendo la decrescita, la recessione, la rottura delle reti di coesione sociale. Fa riflettere il successo nelle librerie americane dell’ultimo libro del francese Thomas Piketty. Il filone è lo stesso di Joseph Stiglitz e di Paul Krugman: il prezzo della diseguaglianza è ormai insostenibile nella prospettiva stessa del mercato e dello sviluppo.
Tornano alla mente gli articoli di Michael Novak, guida intellettuale dei teo-con, a commento della Evangelii gaudium. L’avversione era netta. Anche se la critica trattenuta da ragioni diplomatiche. A Novak non era sfuggito nel testo del Papa la contestazione più radicale al cuore del capitalismo, e cioè alla teoria della «ricaduta favorevole». Non è vero, ha scritto il Papa, che «ogni crescita economica, favorita dal libero mercato» produce maggiore equità e inclusione sociale. «Questa opinione, mai confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante». Quel participio, «sacralizzati», è spietato: denuncia ogni tentativo di assimilare il capitalismo alla natura o alla religione.
C’è nuovo materiale per discutere le diversità tra culture cattoliche e protestanti. La prospettiva di Francesco, comunque, non è quella di aggiornare la dottrina sociale della Chiesa. Non gli interessa una terza via cattolica tra il liberismo e il marxismo. Né tra il mercato e lo Stato. Alla Chiesa chiede di stare evangelicamente con i poveri e di guardare il mondo dal loro punto di vista. Di gridare le ingiustizie che altri non denunciano. Di offrire al mondo, ai cattolici in special modo, una riserva di pensiero critico sulla contemporaneità. Questo non è il solo mondo possibile. Non c’è sfiducia, o delegittimazione della politica. Anzi, Papa Francesco mostra di avere un’idea alta della politica (il contrario del populismo). Ma devono svolgerla i laici, i cittadini del mondo, di cui i credenti sono parte. Se i cattolici hanno un segno particolare, è quello di non fare un «idolo» di questa economia o di qualche altra ideologia.
Per i teo-con il cristianesimo è il cemento dell’Occidente, l’impronta morale sul capitalismo, la fortezza da difendere contro la secolarizzazione e l’Islam. Ora attaccano il Papa sostenendo che è comunista o che deraglia dalla dottrina millenaria: argomenti ricorrenti delle destre reazionarie. Per Francesco vale invece, come per Paolo VI, il principio di «non appagamento» della politica. I governi, i partiti devono fare di tutto per il bene comune, ma qualunque soluzione sarà sempre criticabile e perfettibile. Il pensiero critico resta la risorsa più preziosa a disposizione dell’uomo.
Anche a sinistra c’è chi farebbe volentieri a meno del principio di uguaglianza. Nel dibattito di questi anni è entrata a sinistra, eccome, la parola «equità» proprio per ammorbidire il senso dell’uguaglianza e per tenersi nel mainstream. Ma così la sinistra si è allontanata dalle contraddizioni reali. Nell’illusione di conquistare la modernità ha pagato un tributo al pensiero unico. La radicalità sta soprattutto nel pensiero, nella libertà di sottrarsi all’omologazione. La politica concreta sarà comunque e sempre un compromesso. Il problema è se nel compromesso la sinistra si sentirà appagata, o penserà ancora a un domani più giusto.


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