Squinzi “rottama” il Jobs Act

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E se c’era voluta una fatica bestiale per avere due mini­stri al con­gresso della Cgil (Poletti e Orlando), ieri invece il governo era in grande quan­tità e spol­vero nelle prime file dell’Assemblea di Con­fin­du­stria: Alfano, Guidi, Lupi, Pinotti, Orlando, Poletti, Gal­letti. Non c’era il pre­mier Mat­teo Renzi, ma lo aveva ampia­mente anti­ci­pato. C’erano ovvia­mente i past pre­si­dent (Abete, Mar­ce­ga­glia, Cor­dero di Mon­te­ze­molo), come il gotha delle ban­che (il gover­na­tore di Ban­ki­ta­lia Igna­zio Visco in testa). Era dif­fi­cile non aspet­tarsi un peana per i risul­tati delle euro­pee – gli indu­striali si alli­neano in toto al vin­cente Renzi – ma forse la noti­zia più inte­res­sante è la “rot­ta­ma­zione” del con­tratto unico a tutele cre­scenti, che le imprese respin­gono ufficialmente.

Quella che doveva essere la seconda parte del Jobs Act, dopo i “dolori” del decreto Poletti, e che in parte avrebbe dovuto risar­cire i lavo­ra­tori della impo­nente dose di pre­ca­rietà rice­vuta, adesso insomma vacilla. Il pre­si­dente Gior­gio Squinzi, nella sua rela­zione, pro­muove la legge sui con­tratti a ter­mine e appren­di­stato: «effi­cace», «un segnale impor­tante». Ma poi, subito dopo, aggiunge: «Non abbiamo biso­gno di un nuovo con­tratto, nep­pure a tutele crescenti».

Piut­to­sto – con­ti­nua – «abbiamo biso­gno di sem­pli­fi­care e miglio­rare la disci­plina di quello a tempo inde­ter­mi­nato, ren­den­dolo più con­ve­niente e attrat­tivo per le imprese, lascian­dole più libere di orga­niz­zare in maniera fles­si­bile i pro­cessi di pro­du­zione e rimuo­vendo gli osta­coli che sco­rag­giano le assunzioni».

Non è un attacco espli­cito all’articolo 18, ma ci va molto vicino: è indi­ca­tivo intanto che si respinga l’idea di intro­durre un nuovo con­tratto, per­ché può voler dire che non si devono toc­care le tante tipo­lo­gie ati­pi­che (una delle con­di­zioni, almeno enun­ciata all’inizio da Renzi, era quella di affian­care al con­tratto «unico» a tutele cre­scenti, un «disbo­sca­mento» degli altri con­tratti). Ma, soprat­tutto, si invita il governo a ren­dere «attrat­tivo» l’attuale tempo inde­ter­mi­nato: il che può voler dire incen­tivi o un costo più basso (idea di per sé non nega­tiva, soste­nuta di recente anche dallo stesso mini­stro Poletti), ma anche una mag­giore fles­si­bi­lità in uscita (e qui c’è un’inevitabile minac­cia all’articolo 18: sosti­tuendo magari l’obbligo di rein­te­gro con un risarcimento?).

Più espli­cita la richie­sta di decen­trare i con­tratti, inde­bo­lendo sem­pre di più il livello nazio­nale a favore di quello azien­dale, e legando i salari alla pro­dut­ti­vità: «Dob­biamo andare avanti nel decen­tra­mento della con­trat­ta­zione col­let­tiva – dice Squinzi – Favo­rendo la con­trat­ta­zione azien­dale vir­tuosa, che lega i salari ai risul­tati azien­dali. Sarebbe di grande uti­lità una legi­sla­zione con­tri­bu­tiva e fiscale, che premi, in modo signi­fi­ca­tivo e strut­tu­rale, il decen­tra­mento». Ancora: «Occorre decon­tri­buire e detas­sare il sala­rio di pro­dut­ti­vità, anche se nasce dall’autonoma deci­sione dell’imprenditore».

Insomma, anche se non ci sono accordi con i sin­da­cati, l’impresa può ero­gare premi, e il governo deve soste­nerla. Imme­diato lo stop della Cisl, che in gene­rale ama la con­trat­ta­zione decen­trata: «Pre­miamo la con­trat­ta­zione azien­dale, ma appunto attra­verso gli accordi: altri­menti si rischia il pater­na­li­smo dell’imprenditore», dice infa­sti­dito Raf­faele Bonanni.

Men­tre la lea­der Cgil Susanna Camusso boc­cia senza appello la posi­zione sul Jobs Act: «Nel descri­vere il mer­cato del lavoro, Squinzi ha omesso di citare la pre­ca­rietà: trovo sba­gliata la chiu­sura di Con­fin­du­stria sul con­tratto unico».

Per Squinzi il qua­dro uscito dalle ele­zioni euro­pee è posi­tivo. Innan­zi­tutto «l’Europa deve avviare un ciclo macroe­co­no­mico espan­sivo, abban­do­nando il rigore fine a se stesso». E il pre­mier ita­liano può gui­dare que­sto pro­cesso: «Il man­dato popo­lare dato al prin­ci­pale par­tito di governo e al suo lea­der Mat­teo Renzi, testi­mo­nia la voglia di cam­bia­mento che c’è nel Paese. Que­sta voglia attende fatti e riforme per la crescita».

«La nostra dispo­ni­bi­lità è immu­tata e com­pleta – con­ti­nua Squinzi – Sulla scheda uscita dall’urna c’è scritto: fate le riforme, ne abbiamo biso­gno. Non deludeteci».

Dopo le aspre cri­ti­che rivolte all’esecutivo Letta, e gli ini­ziali dubbi per l’avvio dell’esperienza Renzi, insomma, adesso è scop­piato l’amore imprese-governo.

Con una spe­ranza, che ora anche il Paese ami gli indu­striali, per­ché secondo Squinzi soprav­vive in Ita­lia «una visione pre­giu­di­ziale: qui chi fa impresa è spesso trat­tato come un nemico della legge o un sog­getto che tenta di aggi­rarla», men­tre «l’articolo 41 della Costi­tu­zione dice: l’iniziativa eco­no­mica pri­vata è libera».

Niente paura, «un po’ emo­zio­nata» (lo ammette lei stessa) sale sul palco una impren­di­trice, ex vice­pre­si­dente di Con­fin­du­stria, oggi mini­stra: Fede­rica Guidi. Tra gli applausi, elenca le pas­sate e future ini­zia­tive del governo a favore dei suoi (ex) col­le­ghi, e con­clude: «Dob­biamo dire basta alla dila­gante cul­tura anti-imprenditoriale. Basta alla cri­mi­na­liz­za­zione del pro­fitto», per­ché «solo un impren­di­tore che fa pro­fitti può inve­stire, cre­scere e dare occu­pa­zione». E basta ai dibat­titi «ita­lioti» e «sur­reali» sul lavoro, per­ché «nes­sun impren­di­tore licen­zierà mai un dipen­dente per capric­cio». Il sor­riso iro­nico di Camusso, inqua­drata dalle tele­ca­mere dell’Auditorium, è l’unico con­tral­tare agli applausi.


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