Sud Sudan, il petrolio e i fantasmi

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A vederla adesso, ad una occhiata poco più che super­fi­ciale, Juba sem­bra una città tran­quilla. Cao­tica certo, come altre città afri­cane, sporca, degra­data, sovraf­fol­lata, ma tran­quilla. Girando per le strade della capi­tale del Sud Sudan non si ha per­ce­zione di quanto suc­cede a poche cen­ti­naia di chi­lo­me­tri, a nord, negli stati di Jon­glei, Unity, o ai con­fini con il Sudan, il vec­chio avver­sa­rio di sem­pre. Non si sen­tono spari tranne qual­che colpo esploso di notte, ma spesso è solo la poli­zia che inter­viene a sedare i disor­dini che scop­piano quando il copri­fuoco cala e si alzano troppo i gomiti.

Ad osser­vare atten­ta­mente, invece le cose non vanno per niente bene. Mili­tari ovun­que, in piedi sulle camio­nette a scru­tare la gente armati di Ak47, in moto, in gruppi intorno ai mille pre­sidi sparsi per la strada. Ovun­que è pos­si­bile incro­ciare lo sguardo sospet­toso di un sol­dato gover­na­tivo alla ricerca di qual­cosa, qual­siasi cosa da segna­lare al supe­riore. Aggi­rarsi con l’attrezzatura foto­gra­fica è rischioso ora, molto più di qual­che tempo fa, quando il paese era in festa per l’indipendenza e nes­suno si pre­oc­cu­pava per una foto­gra­fia.
Il rischio adesso è di essere rapi­nati da uno dei tanti gruppi di per­sone agli angoli delle strade, spesso ubria­chi e senza niente da fare, o peg­gio ancora essere arre­stati dai mili­tari. Sono ner­vosi, non ascol­tano ragioni e non basta avere docu­menti e per­messi in regola per con­vin­cerli. Basta poco e ti por­tano via in caserma per un interrogatorio.

Al bivio per la strada del nord, subito dopo aver attra­ver­sato il Nilo, alla peri­fe­ria di Juba, si incro­ciano di con­ti­nuo i con­vo­gli mili­tari diretti in ter­ri­to­rio di guerra. Spesso si tratta di camion merci ria­dat­tati al tra­sporto truppe. I sol­dati stanno appol­la­iati sul tetto, gobbi come avvol­toi con le facce truci e ras­se­gnate. Sono i sol­dati dell’Spla, l’esercito gover­na­tivo, che vanno a com­bat­tere i ribelli di Riek Machar, l’ex vice­pre­si­dente. La sua casa, nel cen­tro di Juba, sorge a pochi passi da quella del pre­si­dente Salva Kiir. Rico­no­scerla è facile per­chè è l’unica resi­denza signo­rile ad avere il can­cello sfon­dato da una can­no­nata, i vetri infranti, gli appar­ta­menti sac­cheg­giati. È rima­sta così dal 15 dicem­bre del 2013, quando il pre­si­dente ha ordi­nato di attac­care la resi­denza di Machar dopo averlo accu­sato di un ten­tato colpo di Stato. Machar quella notte si è dato alla fuga ed è scap­pato al nord, dove ha costi­tuito un eser­cito ribelle. Le avvi­sa­glie di quanto acca­duto risal­gono al luglio 2013, quando Riek Machar, da tempo in disac­cordo con la poli­tica pre­si­den­ziale, aveva pro­cla­mato che avrebbe scon­fitto il pre­si­dente Salva Kiir nelle future ele­zioni poli­ti­che, pre­vi­ste per il 2015.

Salva Kiir non prese bene que­sta noti­zia: temendo di per­dere il con­trollo del governo e del suo par­tito, il Movi­mento per la libe­ra­zione del popolo suda­nese (Splm), Kiir pochi giorni dopo l’annuncio di Machar sospese tutti i mini­stri del governo con l’intento di fare un «rim­pa­sto nel rispetto della costi­tu­zione», e accusò Machar di stare tra­mando per attuare un colpo di stato.

Da quell’evento le ten­sioni all’interno degli organi gover­na­tivi e mili­tari si sono for­te­mente accen­tuate, andando ben al di là delle que­stioni poli­ti­che. Sono rie­mersi vec­chi ran­cori etnici mai sopiti, è rie­mersa l’antica riva­lità tra le due prin­ci­pali etnie del Sud Sudan, Dinka e Nuer. Salva Kiir è Dinka, il gruppo etnico che con il 38% di popo­la­zione è il mag­gio­ri­ta­rio, men­tre Riek Machar appar­tiene ai Nuer, circa il 17% della popo­la­zione. I due gruppi etnici sono rivali da sem­pre, addi­rit­tura dall’alba dei tempi secondo la loro visione mito­lo­gica. Nuer e i Dinka sono due figli di Dio, il quale pro­mise una mucca anziana a Dinka e il suo vitello gio­vane a Nuer. Non con­tento di que­sto, il Dinka va nella stalla di Dio, e imi­tando la voce di Nuer, si prende anche il vitello. Da qui l’antico rancore.

Dal momento in cui Riek Machar è stato accu­sato di tra­mare alle spalle di Kiir, esau­to­rato dal suo inca­rico poli­tico e poi cac­ciato, gli odi tri­bali sono pene­trati negli ambienti mili­tari, dove le appar­te­nenze tri­bali e la fedeltà a un gene­rale sono più impor­tanti dei giu­ra­menti di fronte alla Costi­tu­zione di un paese ancora troppo gio­vane. All’interno dell’Spla i sol­dati appar­te­nenti alle due etnie hanno comin­ciato prima a guar­darsi in cagne­sco, poi a minac­ciarsi e infine a com­bat­tere. L’infezione è pas­sata di caserma in caserma. Prima a Juba, poi in tutto il paese.
L’esercito ha spa­rato con­tro se stesso infiam­mando il Sud Sudan, e la notte del 15 dicem­bre Juba è pre­ci­pi­tata nel caos. Mem­bri Nuer dell’esercito, sol­dati, bat­ta­glioni, gene­rali fedeli a Machar sono fug­giti al nord per ricon­giun­gersi con i ribelli, men­tre il resto dei sol­dati, su ordine di Kiir assal­tava l’abitazione dell’ex vice­pre­si­dente e ter­ro­riz­zava la popo­la­zione civile della capitale.

Dei circa 300 mila abi­tanti di Juba, quasi 40 mila erano Nuer, la mag­gior parte dei quali abi­ta­vano nello stesso quar­tiere: Gudele, case di lamiera, pla­stica, barac­che. Quella notte, l’esercito gover­na­tivo cir­condò Gudele e rastrellò casa per casa tutti i Nuer che riu­sci­vano a pren­dere. Omi­cidi a san­gue freddo di uomini, donne e bam­bini, stu­pri. Ogni tipo di atro­cità è stata com­messa sulla povera gente quella notte in nome della supre­ma­zia Dinka e del governo di Salva Kiir. Gudele ora è un quar­tiere fan­ta­sma, pieno di mili­tari ben armati che si aggi­rano per le barac­che, vie­tato agli occhi della stampa. Il governo di Salva Kiir non vuole che il mondo veda quello che è suc­cesso. Non vuole che si sap­pia che in Sud Sudan l’odio etnico si sta tra­sfor­mando in qual­cosa di peg­giore. «C’è puzza di geno­ci­dio» abbiamo sen­tito, «un altro Rwanda». Siamo riu­sciti ad entrare nella zona e fare alcune riprese di nasco­sto, rischiando di essere sco­perti. L’atmosfera di Gudele è spet­trale, fa venire i bri­vidi, soprat­tutto sapendo ciò che in mezzo a quelle strade ster­rate e in quelle barac­che è suc­cesso. I segni della lotta sono ancora ben visi­bili: porte e recinti sfon­dati, mezzi abban­do­nati, vestiti in terra.

Non tutti gli abi­tanti di Gudele hanno subito le atro­cità di quella notte. Alcuni hanno rac­colto in fretta e furia qual­che vestito, del cibo, e sono scap­pati. Hanno per­corso a piedi, nel buio della notte, la strada che li sepa­rava da Gudele alla base Onu di Tom­ping, e per loro for­tuna i caschi blu hanno aperto le porte. Da quella notte, circa sedi­ci­mila Nuer vivono asser­ra­gliati nelle due basi Onu di Juba. Gli ope­ra­tori uma­ni­tari delle varie ong ci dicono che la situa­zione nei campi è estrema. Sono in piena emer­genza uma­ni­ta­ria, a rischio colera, mala­ria, mal­nu­tri­zione. Un abi­tante di Juba House, l’altra base rac­conta che «i sol­dati hanno preso un bam­bino e l’hanno tra­sci­nato in strada. Gri­dava che non aveva fatto niente, che era solo uno stu­dente, ma l’hanno fuci­lato lo stesso».

La situa­zione è pre­ci­pi­tata in fretta in tutto il paese, spe­cial­mente al nord dove gli scon­tri tra Spla e ribelli sono più forti. È la zona dei pozzi di petro­lio, l’unica vera risorsa di que­sto paese, e chi con­trolla i pozzi può deci­dere le sorti del con­flitto. Alcuni dei distretti più impor­tanti, come Mala­kal, sono ormai sino­nimo di deso­la­zione e morte. I morti cau­sati dai due schie­ra­menti non si con­tano più: la città passa con­ti­nua­mente di mano, chi arriva fa piazza pulita e Mala­kal è una landa deso­lata, non importa chi comandi. Dal giorno della pro­cla­ma­zione dell’indipendenza sono cam­biate molte cose. Chi ha par­te­ci­pato alle cele­bra­zioni del primo anno di vita di que­sto paese ricorda un popolo in festa. In quei giorni i sud­su­da­nesi si sen­ti­vano al cen­tro del mondo. Digni­tari di tutto il mondo erano in città, gira­vano con i loro suv, le ber­line e la scorta. «How are you? I’m fine!» La mag­gior parte della popo­la­zione non sa dire altro in inglese, ma a quelli che ti fer­ma­vano per strada bastava, in quei giorni lontani.


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