Baita: «Io, il Mose e la rete della grande ingordigia»

Baita: «Io, il Mose e la rete della grande ingordigia»

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«L’accordo con i politici era: io non metto il naso su come spendi i soldi che ti do,ma tu ne rendi una parte a me. Non è solo una questione di mazzette. Quelle sono di un importo ridicolo rispetto all’esborso per tutto il resto: consulenze,libri, incarichi, sponsorizzazioni… Una pioggia di soldi». Così Piergiorgio Baita, ex numero uno della Mantovani, travolto dall’inchiesta sul Mose, racconta il sistema di appalti e tangenti attorno al Consorzio Venezia Nuova.
«Ti xé sta’ mona», gli ha detto, sospirando, la moglie. «Son sta’ mona», si ripete lui tutti i giorni, affondando per ore la vanga nella terra dell’orto dietro la casa di Mogliano. Come Cincinnato, Piergiorgio Baita, l’uomo forte della «Mantovani» travolto dall’inchiesta sul Mose, si è ritirato a lavorare il suo campo. Dalle commesse milionarie sulle paratie mobili e altri lavori pubblici a venti «commesse» di insalata, cetrioli, zucchine, melanzane e vari tipi di pomodori, compreso il «cuore di bue» che mette alla prova gli ortolani più esperti.
Sa che lui, però, non ha alcuna possibilità che qualcuno venga a chiedergli di ritornare al potere, come accadde al leggendario Lucio Quinzio. Più facile che tornino a bussare alla sua porta i magistrati che indagano sui grandi appalti veneti e non solo. Anche se lui, chiusa la partita sui reati fiscali con un patteggiamento, giura di aver già detto tutto. Su Giancarlo Galan, sulla sua ex segretaria Claudia Minutillo «che più che una segretaria sembrava la vice-presidentessa», su Renato Chisso, sul giro di bustarelle e prebende, su Giovanni Mazzacurati, il collega e amico d’una vita al quale rinfaccia, vero o no che sia, di averlo trascinato dentro quel sistema di corruzione diffusa di cui «la mazzetta è soltanto l’espressione più visibile».
Cosa vuol dire? Che fin dall’inizio, quando la «Mantovani» entrò nel Consorzio, fu reso edotto di come stavano le cose: «Mi hanno preso da parte come fa la mamma con la figlia il giorno delle nozze, quando le spiega cosa deve aspettarsi». Beata ingenuità… «L’accordo col vertice politico era: io non metto il naso su come spendi i soldi ma quando ti do i soldi tu ne rendi una parte a me. Questo mi spiegò la mamma. Non è solo una questione di mazzette. Quelle sono di un importo ridicolo…». Ridicolo? «Sì, ridicolo rispetto all’esborso per tutto il resto. Consulenze, libri, pubblicazioni, incarichi, sponsorizzazioni… Una pioggia di soldi». A tutti. «Tutti… O almeno quasi tutti».
Altro che il clientelismo meridionale! «Ha presente la Sicilia negli anni d’oro? Uguale». Un esempio? «Ho letto un interrogatorio dove Mazzacurati spiega che il magistrato alle acque non era in grado di assumere 30 o 40 persone, “allora gliele assumevamo noi”». Per non dire delle campagne elettorali: «Le campagne elettorali! Potrei dire che io cercavo di ribellarmi ma ormai è andata. Persa la verginità non è che me la posso rifare. Per questo non posso fare la parte del grande accusatore. Sarebbe assurdo».
Giura che, all’inizio, non aveva davvero capito. Per quanto lui stesso, nella stagione di Mani pulite, avesse avuto grane giudiziarie da cui era uscito assolto: «La Mantovani fino ad allora aveva lavorato “per” l’Impregilo. Quando l’Impregilo disse: noi ce ne andiamo e chiudiamo baracca, Chiarotto, il padrone della Mantovani, disse: ok, compriamo noi. E tirò fuori 78 milioni di euro. L’unico che abbia tirato fuori soldi». Quindi? «Quando tutto ci fu chiaro, cosa dovevamo fare: sbattere la porta accusando Impregilo d’averci dato un “prodotto difettato”?». Certo, sarebbe stato sempre meglio che pagare il pedaggio… «Noi non pagavamo niente. Pagava il Consorzio, cioè lo Stato».
Il magistrato gli ha appena dato una bacchettata sulle dita: non parli dei dettagli dell’inchiesta. Sul sistema corruttivo e sull’alone di ipocrisie che lo circondano, però, Piergiorgio Baita spiega che ne avrebbe da dire tante ma tante «che a sentir certi discorsi, ad esempio quelli di Mauro Fabris, il nuovo presidente che con il Consorzio aveva una “consulenza strategica” e oggi pensa di liquidare ogni problema come si trattasse solo di una marachella fatta da un paio di mariuoli», si deve «mordere la lingua».
A convincerli a puntare sul Consorzio, spiega, fu il modo in cui «era uscito senza una scottatura dal falò di Mani pulite. Pareva che l’allora presidente Luigi Zanda, oggi capogruppo del Pd al Senato, fosse riuscito a camminare sui carboni ardenti della politica in fiamme passando la prova pulito come un angioletto mentre tutti i soci erano rimasti bruciati in altri cantieri e altri appalti. Il Consorzio pareva al di sopra di tutto. Palazzo bellissimo. Quattro motoscafi e dodici motoscafisti (dodici!) sempre a disposizione… Soldi e soldi a volontà».
Ovvio: sei miliardi… «No, quelli comprendono anche i lavori, le sperimentazioni, gli studi… Certo, il Consorzio si prendeva una quota del 12 percento». Altissima. «No: esagerata. Che si spiega col fatto che nei primi anni lo sforzo organizzativo del Consorzio era sproporzionato rispetto alla effettiva produttività dei cantieri. Poco lavoro, tanto studio. Il 12% era riferito ad importi modesti. Poi, quando il fatturato è salito coi cantieri a 600 milioni di euro l’anno, si è ritrovato ad averne 72. Uno sproposito, rispetto a compiti che coi cantieri aperti erano ridottissimi. Cosa vuoi sperimentare ancora? E se poi la sperimentazione dice che non va bene cosa fai: butti via tutto e ricominci?». È uno dei temi: gente così priva di scrupoli magari ha tirato un bidone anche sul Mose vero e proprio…
«No. È il meglio della tecnologia esistente. Il meglio del meglio rispetto a quanto richiesto. Qual è semmai, il problema? Non è previsto nulla sul “dopo”. Quando sarà finito». Ma perché mai dopo quello che è successo i cittadini italiani dovrebbero fidarsi a lasciar finire i lavori al Consorzio? Meglio cambiare idraulico, magari prendendolo sul mercato internazionale così capiremmo anche se i lavori sono stati fatti bene o no… «Non servirebbe a niente. È colpa nostra, sia chiaro, se ci siamo messi nelle condizioni di sputtanare non solo i nostri rapporti con la politica ma anche i lavori fatti. Posso giurare però che i cantieri sono un’altra cosa. Sono eccellenti. Non è cambiando le imprese che si risolve il problema. Va cambiato il contratto. Vale anche per l’Expo. Tutte queste chiacchiere sulle procedure… No, deve essere cambiato il contratto: non ti do un solo centesimo finché i lavori non sono finiti. Ti pago solo se finisci l’opera e funziona come dico io. Se l’opera non è finita vale zero». Come il Mose. «Sì, in questo momento vale zero. Zero. Allora finisci il lavoro, mi fai vedere se funziona e se è in grado di svolgere le funzioni che ti ho chiesto e poi ti pago. Così ritorni a fare anche l’imprenditore, perché un imprenditore che non rischia in proprio non è un imprenditore. Io faccio l’orto. So che se viene giù una grandinata perdo i miei pomodori, la mia insalata, le mie zucchine. Chi lavora per lo Stato sa che se vien giù la grandinata paga lo Stato. Non può andare avanti così. Cosa siamo stati, tutti noi, in questi anni? Dei diffusori di spese. Che non dovevano rendere conto a nessuno, praticamente, sui risultati. Ma è finita. Finita. Devono tornar fuori gli imprenditori, quelli che investano il loro».
E non nominategli l’intemerata di Giorgio Squinzi contro gli imprenditori che pagano. «Chi non paga, spesso, fallisce. E tutti a stracciarsi le vesti… Bisogna finirci in mezzo, per capire. C’erano i mutui in banca, i 78 milioni da recuperare, i fornitori da pagare… Per carità, non ci sono scusanti, voglio solo dire che la faccenda era sul serio complessa». Giura, però, che se tornasse indietro… «Ho sbagliato. Abbiamo sbagliato. Dovevamo ribellarci. Dire di no. Dicevamo a noi stessi: è per la continuità dei cantieri. Pigrizia. Inerzia intellettuale». E una certa dose di immoralità, magari… «Sì, certo. Ma parliamoci chiaro: perché un imprenditore sia morale occorre rendere conveniente la moralità. La moralità nasce dall’efficienza della spesa». Quindi quanto sente Giorgio Squinzi fare certi discorsi… «I costruttori sono imprenditori borderline, ma anche quelli di altri settori, se dovessero vendere i loro prodotti alla politica…».
Possibile che per anni, dentro il Consorzio, nessuno si sia accorto che era un «puttanaio»? «Sì. Tanti. Ma poi nessuno ha fatto un passo in più. “Vado in Procura” non l’ha detto nessuno. Felice Casson ha indagato sei anni. Senza venire a capo di niente. In fondo il sistema andava bene a tutti».
Tornasse indietro ci andrebbe, in Procura? «Interverrei prima. Per rompere questo sistema avvolgente. Dove la politica, al di là delle bustarelle, interviene in modo asfissiante. Imponendo i suoi “tecnici di area”, i suoi avvocati, i suoi consulenti, costringendo ad assumere elettori e clienti, agevolando imprese amiche…».
L’ultimo pensiero è per Giovanni Mazzacurati: «Hanno pesato tante cose. L’accumularsi di richieste delle famiglie. La moglie e l’ex moglie, che sono sorelle. A un certo punto non gli bastava più accontentare l’una o l’altra ma doveva accontentare esattamente allo stesso modo i figli e i nipoti. Prendeva una casa a una figlia e doveva prenderne una alla pari anche a quell’altra. L’avvicinarsi della fine del Mose aveva messo addosso alle famiglie l’ansia che finissero le provvigioni. A un certo punto non sapeva più dove andare a sbattere la testa. Quando è arrivata la malattia del figlio, Carlo, il regista, gli ha dato il colpo di grazia…».
Certo che questa ingordigia tutto intorno che emerge dall’inchiesta… «Non è solo l’ingordigia. È l’ingordigia in anni in cui c’è gente che ha fame. C’era, prima, un equilibrio perverso che in qualche modo reggeva. Ma se tu mangi caviale mentre intorno hanno fame… Beh, non c’è merito tecnico che ti giustifichi certi privilegi. È lì che si è rotto tutto…».



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