Il cuore nero dell’ India

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NEW DELHI. DI TUTTE le schede utilizzate nelle scuole indiane come sussidio didattico quella del Bambino ideale è stata l’incubo della mia generazione. Il Bambino Ideale si alzava e si lavava i denti con cura, salutava i genitori, diceva la preghiera, arrivava a tavola puntuale, aiutava, faceva le commissioni e, cosa che lasciava più perplessi, accompagnava «i bambini smarriti al posto di polizia».
Il Bambino Ideale incarnava determinati valori indiani e, nonostante l’aria innocua, nei suoi lineamenti abbozzati, identificabili con il classico aspetto degli indù e degli indiani del nord, e nella sua espressione di compiaciuta santità c’era qualcosa che terrorizzava la mia mente infantile. Ora che sono adulta e che in India la destra è tornata al potere capisco il perché di quel senso di nausea. Era un presentimento, la sensazione che si potesse fare appello a valori indiani tradizionali, altrimenti indiscutibili, come il rispetto per la propria famiglia, l’obbedienza agli anziani, la modestia femminile, al fine di emarginare o reprimere determinati gruppi.
Il nuovo governo del Bharatiya Janata Party pare deciso a ispirarsi all’Asia sotto il profilo politico e culturale. Il primo ministro Narendra Modi si propone come figura autorevole — addirittura autoritaria — in linea con l’ideale regionale dell’uomo forte. Ha sempre curato i contatti con le sue controparti. Ha in calendario visite ufficiali in Bhutan e in Giappone e il ministro degli Esteri cinese ha appena concluso il suo viaggio in India.
L’approccio di Modi non è frutto semplicemente di una scelta personale, ma specchio di un più ampio mutamento in corso in India, soprattutto tra i politici e gli intellettuali di destra, alla ricerca di un insieme di norme culturali asiatiche condivise che possano aiutarli a creare e rafforzare un nuovo senso di identità indiana.
Negli Anni ‘90 l’ex primo ministro di Singapore, Lee Kuan Yew, scatenò un aspro dibattito ponendo un distinguo tra libertà occidentali da un lato e, dall’altro, la visione asiatica dell’armonia dell’esistenza, in cui i diritti individuali possono essere sospesi per il bene comune. In India, il dibattito sui ‘valori asiatici’ portò tra l’altro a discutere sullo sviluppo e a tentativi di screditare gli ambientalisti, accusati di farsi troppo influenzare dall’Occidente.
Le problematiche sono le stesse ora come allora. L’economista Amartya Sen nel 1997 si chiedeva: «Quali possono essere considerati i valori di una regione così estesa e così eterogenea? ». Appellarsi all’identità indiana o asiatica in un paese o in una regione così plurale spesso diventa un pretesto per la maggioranza per tacitare molte minoranze.
Sen si chiedeva anche perché mai i “concetti occidentali” dovessero essere considerati per principio «in qualche modo estranei all’Asia». Qualche settimana fa i media indiani hanno divulgato un rapporto dell’intelligence sull’influsso esercitato dalle ong. Tra l’altro il rapporto conclude che molte ong locali, alcune finanziate da «donatori con sede negli Usa, Regno Unito, Germania, Olanda e paesi scandinavi», avevano utilizzato «argomenti incentrati sulle persone» per bloccare i progetti di sviluppo. Il rapporto sostiene inoltre che l’operato delle ong è in parte «funzionale agli interessi strategici di politica estera» dei governi occidentali.
Questo linguaggio rigido e burocratico non è solo una peculiarità dell’intelligence, ma rivelatore di un atteggiamento di sospetto nei confronti dell’Occidente e della cultura dei diritti umani come opera occidentale, atteggiamento diffuso in India tra politici e imprenditori e, a dire il vero, tra molta gente comune.
Tutti i grandi casi di stupro ad esempio hanno recentemente scatenato una reazione bellicosa nei confronti delle vittime, spesso espressa in termini che pongono l’India in opposizione all’Occidente. Il 7 giugno S. Gurumurthy, uno dei massimi ideologi dell’organizzazione di estrema destra Rashtriya Swayamsevak Sangh, ha sollevato un piccolo vespaio con un tweet: «Se le donne indiane si occidentalizzeranno gli stupri aumenteranno di 50/60 volte, portandosi ai livelli occidentali, ma la stampa tacerà e non ci sarà alcun intervento delle Nazioni Unite». Nei successivi tweet ha spiegato cosa intende per occidentalizzazione: «Individualismo sfrenato che distrugge i rapporti e le famiglie».
Oggi si tira in ballo l’influenza nefasta dell’Occidente non solo per motivare la violenza sessuale sulle donne, ma anche per spiegare perché la cultura indiana è in pericolo, perché bisognerebbe censurare gli artisti e perché chi mette in discussione i costi dello sviluppo è “contro la nazione”. In altri termini il dibattito sui valori riapertosi in India è già diventato un pretesto per attaccare i diritti civili e politici.
A suo tempo Sen aveva sostenuto che «i cosiddetti valori asiatici a cui si fa appello per giustificare l’autoritarismo non sono prettamente asiatici in alcun senso significativo». Il suo fu un saggio tentativo di superare inguaribili dicotomie. Ma faceva appello alla razionalità e ultimamente la razionalità è un valore che non sembra troppo indiano.
( © 2-014 The New York Times. Traduzione di Emilia Benghi)



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