Droni e missili Usa verso Bagdad Ma l’Iran è già sceso in campo

by redazione | 13 Giugno 2014 9:17

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WASHINGTON — Le notizie da Oriente raccontano che l’Iran si è mosso subito. Due battaglioni dell’Armata Qods, l’apparato speciale dei pasdaran, sono arrivati di gran fretta a Bagdad per assistere l’amico iracheno. O magari c’erano già. Sono di casa. Insieme a loro i Saberin, membri di un’unità scelta. Li chiamano «coloro che hanno pazienza», ma vista la situazione c’è poco da aspettare. Forse è anche per questo che è stato avvistato il generale Qasim Suleimani, il capo in testa della Qods, l’uomo delle missioni impossibili.
La reazione iraniana è stato certo più veloce di quella americana. Tanto che i repubblicani hanno accusato Barack Obama di «essersi fatto un sonnellino sull’Iraq». Ma è anche vero che è molto difficile agire. E lo è ancora di più quando non si ha alcuna voglia di farlo. Con il solito dilemma del presidente, stretto tra la volontà di non riaprire la pagina delle guerre e la responsabilità di far fronte alla crisi.
Bagdad — come hanno scritto i media Usa — ha chiesto per la seconda volta in un anno raid aerei statunitensi. Magari affidati ai droni, quasi che fossero la soluzione magica ad ogni minaccia estremista. Un appello accompagnato dall’apertura dello spazio aereo agli Stati Uniti. Washington ha preso tempo. Mercoledì ha rifiutato di mandare i suoi caccia. Ieri pomeriggio, il presidente ha aperto nuovi scenari. Infatti non ha escluso «alcuna opzione», ha parlato di possibili «azioni militari nel caso la sicurezza nazionale sia a rischio», ha promesso ulteriori aiuti ed ha ribadito che non vi sarà alcun impiego di forze terrestri. Il tutto all’interno di consultazioni per «una robusta reazione regionale». Dunque i blitz aerei che fino a 24 ore fa erano stati esclusi ora paiono più vicini. E molto dipenderà dall’evoluzione degli eventi.
La Casa Bianca ha intanto indicato una strada precisa: tocca all’esercito iracheno prendersi le sue responsabilità, così come serve una soluzione politica che coinvolga sunniti e sciiti. Un’affermazione che si porta dietro una verità. L’America ha speso 25 miliardi di dollari per armare e addestrare le forze armate di Bagdad. Ed ecco il risultato. Un disastro. Ancora peggio quello politico per colpa di Bagdad. Dunque l’amministrazione Usa prevede di «assistere» l’Iraq con le solite formule quando non si vogliono mettere scarponi sul terreno. Intanto con l’incremento delle forniture militari. Certo non sarà possibile far arrivare subito gli F16 e gli elicotteri d’attacco Apaches, ma è possibile che il Pentagono mandi altri missili terra-aria. In particolare altre dotazioni di Hellfire che gli iracheni usano a bordo di bimotori Cessna modificati.
Non meno importante il supporto dell’intelligence. I droni presenti nelle basi turche, i Global Hawk schierati a Sigonella (Sicilia), insieme a voli spia e satelliti possono fare da vedette avanzate per monitorare la travolgente cavalcata jihadista. Garantiscono informazioni vitali ad un esercito cieco e disorganizzato. All’Iraq servirebbero coordinatori e apparati di comunicazione. La catena di comando non ha funzionato, molti ufficiali di nomina politica sono scappati al primo petardo, molte unità non erano in grado di comunicare e avevano pochi viveri. Le immagini diffuse dall’Isis mostrano intere caserme abbandonate, con tank e blindati lasciati con «le chiavi nel cruscotto». Per certi aspetti un mistero. Nella capitale statunitense sono apparsi commenti dove si parla di «sorpresa» per la sconfitta dei governativi. Analisi bilanciate da altre analisi: gli addetti ai lavori sapevano della scarsa preparazione dei soldati di Bagdad. Non meno gentili i giudizi sui generali, almeno tre, ritenuti responsabili della disfatta. Al punto che gli iracheni pensano alla costituzione di una milizia popolare che sostituisca plotoni di militari infedeli o deboli. Uno schema già adottato da Bashar Assad con l’assistenza di Hezbollah e pasdaran iraniani.
Washington ha poi intensificato i contatti con gli amici. Magari partendo dai sauditi, con i loro agganci nella nebulosa islamista. A seguire la Giordania, che ha subito rafforzato il dispositivo militare lungo il confine ed ha mobilitato i suoi servizi. Le basi giordane possono poi diventare fondamentali per sostenere le probabili incursioni aeree. E poi i rapporti con i peshmerga curdi iracheni, unico schieramento compatto e motivato. Quella del Kurdistan è una enclave dove in passato hanno operato con successo francesi, britannici e israeliani. Affari e intelligence per tenere d’occhio il Sud, ma anche il vicino Iran.
Torniamo così da dove siamo partiti. Teheran ha mezzi e interessi (enormi) per contenere la spinta dell’Isis. Una leva che potrebbe entrare anche nei negoziati sul nucleare in corso con gli Usa. Scenari globali che si sovrappongono a quelli regionali. I mullah hanno costituito da decenni un network all’interno dell’Iraq, sono in grado di spostare volontari sciiti schierati in Siria e mobilitare quelli locali. Dispongono di forze di pronto intervento alla frontiera. Il contrattacco nella zona di Tikrit — ha rivelato il Wall Street Journal — è stato condotto proprio dai battaglioni della Qods. Così come ha un grande valore la presenza di Suleimani. Lo dimostra una foto pubblicata da un deputato con la didascalia: «Haji Qasim è qui». Come dire, ecco il salvatore. Che non lavora però gratis e un giorno chiederà la sua parcella.
Guido Olimpio

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