Fiat, Ilva e le altre, l’agenda del lavoro

by redazione | 20 Giugno 2014 12:00

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Le colonne dei mag­giori quo­ti­diani nazio­nali — il Sole 24 ore appare spesso meno ideo­lo­gico del Cor­riere della Sera — reg­gono la fac­ciata di un palazzo svuo­tato, crol­lato. Le gra­ni­ti­che cer­tezze delle poli­ti­che di dere­go­la­men­ta­zione del mer­cato del lavoro, di ridu­zione del sala­rio, di fles­si­bi­liz­za­zione del mer­cato del lavoro e di pri­va­tiz­za­zione avreb­bero dovuto atti­rare capi­tali stra­nieri capaci di fer­mare la distru­zione del sistema indu­striale italiano.

Gli «amici sono alle porte», ci hanno ripe­tuto i pre­si­denti del con­si­glio che si sono alter­nati: per­ché potes­sero var­care la soglia biso­gnava ridurre la pre­senza dello Stato, fal­ciare le tutele dell’ambiente e dei lavo­ra­tori, tagliare la spesa pub­blica e libe­ra­ra­liz­zare atti­vità come la sanità in modo che la liqui­dità finan­zia­ria potesse scor­rere, ridare vita ai rami sec­chi della nostra eco­no­mia e farne ger­mo­gliare di nuovi.

È così? Quali crisi indu­striali sono state risolte? Quanti gruppi mul­ti­na­zio­nali hanno inve­stito creando nuove pro­du­zioni? Quale il saldo sull’occupazione? Ed infine, siamo così sicuri che poli­ti­che nazio­nali pos­sano offrire pos­si­bi­lità di progresso?

Se vogliamo pro­vare ad uscire dalla crisi, que­ste domande dovreb­bero essere al cen­tro di un con­fronto a carte sco­perte tra isti­tu­zioni, imprese, lavo­ra­tori e cit­ta­di­nanza. Mar­ce­ga­glia, Ilva, Fiat, Alcoa, le aziende dell’elettronica, solo per guar­dare al set­tore metal­mec­ca­nico, rap­pre­sen­tano ognuna in modo diverso la dein­du­stria­liz­za­zione del paese. Nei talk show ci viene detto di con­ti­nuo che la causa di tutto è l’assenza di riforme. In verità di riforme nella dire­zione auspi­cata da mana­ger — in giacca e cra­vatta o col maglion­cino — da uomini e donne delle isti­tu­zioni col­lo­cate a destra come a sini­stra, da edi­to­ria­li­sti ed esperti ce ne sono state tante: l’art. 8 di Sac­coni sulle dero­ghe ai con­tratti e alle leggi, la riforma For­nero sulle pen­sioni, la modi­fica dell’art. 18, il Jobs Act e da ultimo l’intervento sulla pub­blica ammi­ni­stra­zione. Il fatto è che non hanno pro­dotto i risul­tati annunciati.

Di cosa avremmo biso­gno? Di inve­sti­menti pub­blici e pri­vati utili a costruire una società che offre lavoro e pro­muove la cit­ta­di­nanza, che tutela la natura e i beni comuni. L’esempio più sem­plice è la mobi­lità. La vita media degli auto­bus in Ita­lia è supe­riore a 12 anni, il tra­sporto pub­blico su rotaia per i pen­do­lari è quan­ti­ta­ti­va­mente e qua­li­ta­ti­va­mente ina­de­guato, il mer­cato dell’auto sem­pre più domi­nato dalle impor­ta­zioni. C’è l’esigenza dei cit­ta­dini di una mobi­lità pub­blica e pri­vata che abbia un impatto ridotto sull’ambiente, e c’è la pos­si­bi­lità di rea­liz­zare pro­du­zioni indu­striali che allar­ghino l’occupazione. Andiamo in que­sta dire­zione? Nel piano indu­striale della Fca (la Fiat ormai dovremo chia­marla così) non sono stati annun­ciati modelli di auto­mo­bili con motori ibridi o elet­trici. La pro­du­zione di auto­bus pub­blica vede il disim­pe­gno e la pri­va­tiz­za­zione nelle scelte del governo e quel che rimane del set­tore pri­vato rischia di essere colo­niz­zato. La pro­du­zione di treni, nean­che a dirlo, vede Fin­mec­ca­nica sce­gliere di ven­dere il set­tore civile per rima­nere coi piedi ben saldi nel mili­tare. È que­sta la visione del futuro che abbiamo? In più, molte aziende che si erano col­lo­cate nel set­tore della pro­du­zione «green» stanno ora chiu­dendo; lo stesso avviene in un altro set­tore chiave come l’elettronica.

Invece di affron­tare que­sti pro­blemi di fondo, si indu­gia sulla fles­si­bi­liz­za­zione in entrata ed in uscita, ven­gono distrutti posti di lavoro, si fanno accordi tra orga­niz­za­zioni di imprese e sin­da­cali che per­met­tono dero­ghe alle norme e al sala­rio, si ignora l’esigenza di tutela del red­dito nelle ini­zia­tive con­tro la disoc­cu­pa­zione. Un ruolo cen­trale può e deve averlo chi lavora. Serve costruire pro­grammi di inve­sti­mento affian­cati da for­ma­zione, ricerca e inno­va­zione, intrec­ciando nuove pro­du­zioni pos­si­bili e domanda della cittadinanza.

Dal 2008 i metal­mec­ca­nici Fiom pro­vano a non farsi rin­chiu­dere nel recinto cor­po­ra­tivo dell’aziendalismo e si sono messi alla ricerca di chi vuole con­di­vi­dere un’idea di cam­bia­mento. Abbiamo mol­ti­pli­cato gli incon­tri, in Europa e nel mondo, con altri sog­getti, sin­da­cati ed esperti, le ini­zia­tive comuni con asso­cia­zioni e movi­menti: un ten­ta­tivo di opporsi alle ten­denze in atto, di resi­stere agli effetti della crisi. Ora la sfida è costruire una coa­li­zione tra chi lavora, chi è pre­ca­rio, chi ricerca, chi stu­dia, che in Europa sia capace di sfi­dare la classe diri­gente. Nono­stante i fal­li­menti – la crisi, l’austerità — con­ti­nuano a deci­dere loro. È una strada dif­fi­cile, per­ché l’élite decide in fretta, crea fatti com­piuti, fa a meno della demo­cra­zia. Dalla sto­ria degli ultimi anni, in par­ti­co­lare in Ita­lia, biso­gne­rebbe impa­rare che non basta aver ragione, o pen­sare di averla, per costruire il con­senso e intra­pren­dere un con­flitto. La demo­cra­zia non accetta scor­cia­toie. Sin­da­cati, movi­menti, asso­cia­zioni, dovreb­bero esserne consapevoli.

*Fiom Cgil

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