Fondi e leggi speciali Così i padroni delle acque si spartiscono Venezia

Fondi e leggi speciali Così i padroni delle acque si spartiscono Venezia

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VENEZIA — Sindaco, ma perché sta sempre in televisione? «In Comune non ho un beneamato nulla da fare». La scena risale a qualche anno addietro. E l’espressione usata da Massimo Cacciari era molto più colorita di quella riportata qui sopra. Il concetto risulta comunque chiaro. Al netto di ruberie e disonestà personali, per quanto possibile, lo scandalo del Mose è anche nella peculiarità di un manager come Giovanni Mazzacurati che da solo contava più del primo cittadino di Venezia e del governatore di una regione con il prodotto interno lordo tra i più alti d’Europa. Da ormai quarant’anni gli enti locali di uno dei posti più belli e visitati del mondo hanno funzione decorativa, soprammobili istituzionali di decisioni prese altrove. L’ormai ex sindaco Giorgio Orsoni, le dimissioni dopo l’arresto ai domiciliari per finanziamento illecito ai partiti sono in dirittura d’arrivo, raccontava spesso che nel suo mandato ha convissuto con quattro diversi governi e con ognuno di essi si è lamentato dei tagli ai bilanci del Comune. «Ma tanto ci sono i soldi del Mose…». La solita risposta, la stessa da quarant’anni.
L’alluvione del 1973 portò all’approvazione della legge speciale per Venezia. Fu allora che cominciarono bei tempi per gli amministratori locali, travolti da un insolito benessere che si concretizzava in finanziamenti per qualunque necessità, dal rifacimento delle piazze, alla pedonalizzazione del centro di Mestre, al restauro dei palazzi nobiliari. Ma la fetta più grande andava alla protezione di città e laguna, microrganismi delicati e fragili. I soldi arrivavano sopratutto da voci come rialzo delle rive, difesa idraulica e bonifiche. La legge speciale è stata una specie di Cassa del Mezzogiorno per Venezia e dintorni. I bei tempi sono finiti con l’arrivo del Mose, proprio lui. L’approvazione definitiva dell’opera ha comportato il suo inserimento nella legge obiettivo, che dal 2001 determina i finanziamenti per le infrastrutture di importanza nazionale. E di soldi, il Modulo sperimentale elettromeccanico ne ha dragati proprio tanti, presenza stabile nei primi cinque posti degli stanziamenti deliberati dalla legge obiettivo nei suoi dodici anni di vita (2002-2013). Le dighe mobili avevano di tutto e di più, il resto della città è rimasto a secco. E siccome sono i soldi a decidere chi comanda davvero, ecco che sindaci e amministratori assortiti vengono buoni ultimi. Tanto più se i soldi del Mose finiscono in tasca a una sola entità, il Consorzio Venezia Nuova. L’idea del concessionario unico, che molto fa discutere alla luce delle prodezze di Mazzacurati e soci, parte da lontano ed è sempre piaciuta molto prima al Psi poi a Forza Italia. Ma, quando l’idea venne lanciata, a fine anni 70, l’adesione e la spinta più importante al progetto sperimentale arrivarono dall’Iri, che di suo ci mise ingegneri e consulenti, fino a ottenere la nomina del primo presidente, Luigi Zanda, l’ex capogruppo al Senato del Pd.
Il passo decisivo per la creazione di una sorta di monopolio arrivò nel 1984. Il Consorzio era neonato e Gianni De Michelis, all’epoca ministro del Lavoro, varò la seconda legge speciale per Venezia, che prevedeva la possibilità di concedere studi, progetti e opere di salvaguardia della laguna a un solo soggetto, in deroga alle norme sui lavori pubblici. Aboliti appalti e gare pubbliche, decide un solo concessionario dello Stato. Era nato il monopolio del Mose. Poco importa se la Corte dei conti nel 2009 osò scrivere che con questo sistema i costi dell’opera erano raddoppiati e l’Ue aprì una procedura d’infrazione perché la legge prevedeva almeno un 40% degli stanziamenti da assegnare con appalto ma nessuno se lo ricordava. Tutto andò avanti come nulla fosse. Fino alle inchieste e agli arresti.
E siamo al paradosso di oggi. Il Comune conta poco, in una città che ha storiche stratificazioni di potere. Oltre al Consorzio, i veri padroni sono il Magistrato delle acque, organo statale che gestisce l’intera laguna, e l’Autorità portuale, titolare dei canali delle grandi navi, dal Bacino di San Marco alla Giudecca. Il sindaco comanda sulle calli, che cartina alla mano rappresentano il 6% della superficie di Venezia. Ma il suo arresto, con conseguente paralisi istituzionale, ha bloccato i pochi progetti «indipendenti», come la costruzione del nuovo stadio, nell’area del Quadrante di Tessera, e la creazione di una nuova compagnia per le aree di Porto Marghera e la riconversione del sito industriale. Invece sabato, mentre i magistrati interrogavano vecchi e nuovi protagonisti della vicenda, a Chioggia è stato ancorato al fondo del mare il primo cassone della barriera all’ingresso del porto. Il Mose si muove, Venezia è ferma.
Marco Imarisio


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