I sunniti di Bagdad pronti al sacrificio «I jihadisti nostri liberatori»

I sunniti di Bagdad pronti al sacrificio «I jihadisti nostri liberatori»

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BAGDAD — «Voi in Europa ci chiamate terroristi. Ma non avete capito la nostra esasperazione. Il governo sciita di Nouri al Maliki ci ha progressivamente umiliato, offeso, marginalizzato. Noi sunniti per anni abbiamo provato a cercare il dialogo, a cooperare per l’unità dell’Iraq. Ma abbiamo incontrato solo ostilità. Così abbiamo stretto un patto con il diavolo. Lavoriamo assieme agli estremisti islamici qaedisti, con i tagliagole arrivati dalla guerra civile in Siria. Sappiamo che è pericoloso, potrebbe essere un abbraccio mortale. Ma siamo pronti a tutto pur di far valere i nostri diritti. Una volta raggiunti i nostri obbiettivi, dovremo fare i conti con gli alleati di oggi. Nel futuro i baathisti e le grandi tribù sunnite dovranno liberarsi degli estremisti. Intanto va compreso però che la nostra guerriglia è in effetti un movimento rivoluzionario popolare di ampio respiro. Anche se purtroppo abbiamo davanti a noi un lungo periodo di violenze». E’ uno sfogo allo stesso tempo militante e preoccupato quello di Nabil Salim al Najar. Lo incontriamo nel suo ufficio nel quartiere sunnita di Yarmuk. Un palazzone in perfetto stile baathista dei tempi di Saddam Hussein, con gli scaloni di marmo, aquile imperiali color oro scolpite sui muri, saloni e gigantesche poltrone un poco sfondate. Najar era professore di scienze politiche all’Università di Bagdad, oggi a 57 anni è dirigente del partito sunnita «Muthaidoon» (L’Unità) e consigliere personale del suo leader, Osama Nujaifi, che è anche portavoce del parlamento.
Le sue parole e il suo stile di vita ben aiutano a comprendere i sentimenti dei sunniti, una minoranza bellicosa (circa il 30% degli oltre 31 milioni di iracheni), storicamente abituata a comandare, legata a filo doppio col regime defenestrato dall’invasione anglo-americana del 2003 e adesso sul sentiero di guerra contro la maggioranza sciita e i suoi mentori iraniani. I sunniti di Bagdad si stanno barricando: frustrazione, incertezza, appelli «al sacrificio». Preparano le armi in cantina, si passano le munizioni. Nei quartieri più esposti accumulano cibo e benzina. Medici e infermieri organizzano cliniche di fortuna. Najar si sente braccato. Da tre settimane ha cambiato casa, ha mandato una parte della famiglia in Giordania. In altri tempi lo avremmo definito un moderato. Oggi ha paura, ma è pronto a combattere. «Una soluzione politica ci sarebbe: le dimissioni di Maliki, come ha indicato l’amministrazione americana, assieme alla creazione di un governo di unità nazionale. Ma sappiamo bene che non è affatto pronto a lasciare. Promette la guerra. E guerra sarà. Ci aspettiamo il peggio, pregando Dio che non avvenga».
Ieri mattina le dichiarazioni di Najar suonavano particolarmente pertinenti. Già prima delle sette le strade del grande quartiere sciita di Sadr City alla periferia orientale della capitale (oltre 2 milioni di abitanti) risuonavano degli slogan e gli appelli alla guerra santa contro le milizie sunnite lanciati da oltre 20.000 giovani mobilitati da Muqtada al Sadr, il leader 41enne delle brigate sadriste (i cosiddetti «soldati del Mahdi»). In un volteggiare di bandiere nere, verdi e bianche (queste ultime simbolo di chi è pronto a morire per la causa), brandendo fucili, lanciarazzi e bazooka, gli sciiti confluiti specialmente dalle province meridionali hanno voluto sottolineare che la loro ritirata è finita. Non ci saranno più sbandamenti e diserzioni di massa, come è avvenuto per le unità dell’esercito a Mosul, Tikrit e Baqouba. Un gesto di sfida di fronte all’avanzare dei sunniti, che nelle ultime ore hanno tra l’altro completato la loro conquista delle zone di confine con la Siria catturando la cittadina di Al Qa’im e stanno riorganizzandosi per riprendere la marcia verso sud. Per tutti è ovvio che le dinamiche della guerra stanno facendosi più insidiose, dalle conseguenze gravissime per i civili. Non sarà più lo scontro tra guerriglie ed esercito, bensì guerriglia contro guerriglia. Nel cuore di Adhamiyah, 300.000 abitanti il quartiere più importante dei sunniti nella capitale, abbiamo visto numerosi giovani di guardia ai negozi. «Siamo semplicemente terrorizzati. Più si combatte nel nord e più la guerra civile insanguinerà Bagdad, la città mista per eccellenza», confida Musfafa Al Adami, condirettore della rete tv «Dijla». I sunniti in maggioranza vedono i miliziani che arrivano da nord come liberatori, gli sciiti come nemici. Basterebbe questa semplice constatazione per cogliere il baratro che li separa. Ma Al Adami è ancora più pessimista: «Io sunnita ho una moglie sciita. L’ho sposata vent’anni fa, quando ancora nessuno pensava che le differente teologiche tra le nostre fedi sulla discendenza di Maometto costituissero una barriera. Ma adesso viviamo in tempi folli. E la mia unica aspirazione è scappare con la famiglia all’estero».
Lorenzo Cremonesi



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