L’hangar segreto di Sigonella con i droni spia americani

L’hangar segreto di Sigonella con i droni spia americani

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SIGONELLA . Maestosi, agili, potenti, sinistri. Minacciosi come un gigantesco insetto alieno, partorito dalla fantasia di uno scrittore di fantascienza. Eccoli i droni americani dell’hangar segreto di Sigonella, dove mai nessuno prima di “Repubblica” è riuscito a portare macchina fotografica e telecamera. Dormono silenti, in attesa della prossima missione di ricognizione nell’area del Nordafrica e del Medio Oriente, le zone in cui questi Global Hawk, gioielli tecnologici prodotti dalla Northrop Grumman, sono destinati a operare.
Inutile cercare sulla loro testa rigonfia gli occhi formati dagli oblò della cabina di pilotaggio. I veri occhi di questi mostri dei cieli sono altri, si trovano sparsi sotto la fusoliera e sotto il muso. E sono occhi ad altissima tecnologia, obiettivi e telecamere capaci di cogliere dettagli del suolo da 20 mila metri di altezza e trasferirli poi su mappe precise al millimetro, da utilizzare per studiare il territorio e per pianificare interventi militari. «Abbiamo diversi aerei con diverse capacità militari », racconta ermetico il comandante della base Us Navy di Sigonella, Christopher Dennis. Che con lo sguardo sembra venerare il mostro dalle ali larghe 35 metri.
Già, perché qui a Sigonella il drone è un cult. Lo si nota dalla scultura sul piedistallo che accoglie i visitatori sul piazzale, che riproduce un drone in volo. Dalle decine di gigantografie che arredano il corridoio che porta all’hangar segreto. Dagli striscioni appesi nell’hangar stesso: “Welcome in the Global Hawk country”, mentre un altro celebra il traguardo delle centomila ore di volo dell’aereo senza pilota, che ha debuttato nel febbraio 1998. Si nota dai due militari armati fino ai denti che sorvegliano l’aereo, protetto con teli e coperture in ogni suo punto vulnerabile. Un Global Hawk equipaggiato con le attrezzature fotogrammetriche di base costa oltre 220 milioni di dollari, ma a seconda degli equipaggiamenti il suo costo può quasi raddoppiare. Quanti ce ne siano custoditi sotto questo e gli altri hangar resta un mistero.
Di sicuro ci sono almeno cinque Global Hawk. Così come di sicuro da qualche altra parte della base sono custoditi i temibilissimi Predator, i piccoli droni della General Atomics che possono anche viaggiare con un carico di bombe. Ma qui entriamo nella “top secret area”.
Intanto la stazione aeronavale di Sigonella non è mai stata così popolata di marines: ce ne sono ottocento. Il gruppo legato al comando Africom si chiama “Special Purpose Air Ground Task Force Crises Response”, ed è arrivato a maggio ufficialmente per rafforzare il livello di protezione nelle ambasciate Usa in Nord Africa. Resterà qui senza limite di tempo. Una presenza voluta dal Pentagono con indicazioni precise, spiegato il colonnello Brian T. Koch, comandante del gruppo giunto qui con il suo staff dalla base di Moròn, in Spagna. «Non abbiamo scadenza. Siamo qui a Sigonella su ordine del Pentagono, secondo gli accordi con il governo otaliano, per fronteggiare qualsiasi cosa accada nel Nordfrica, e ovviamente in Libia, considerato che è il luogo a noi più vicino. Per il resto la nostra principale attività rimane l’addestramento dei militari africani». Il termine chiave per capire il loro ruolo è “Crises Response”, che in soldoni significa: “Pronti a intervenire qualsiasi cosa accada”. Dalla missione in Libia per proteggere il personale Usa a quella più sofisticata in Nigeria per rintracciare le liceali rapite da Boko Haram: «Non abbiamo avuto nessuna indicazione sulla Nigeria, ma ovviamente se venissimo coinvolti saremo pronti anche a quest’altra missione», ammette Koch.
I marines ci tengono a non fare la parte degli “invasori”. Si impegnano in prima persona per spegnere gli incendi che in questi giorni hanno devastato la Sicilia. Dedicano intere giornate a ripulire siti archeologici, coste e spiagge dell’Isola, da Brucoli a Termini Imerese. Rapporti di buon vicinato che nessuno smentisce. Neppure il contadino che davanti all’ingresso della base ha costruito un giaciglio con copertoni e resti di biciclette: mai nessuno si è sognato di scacciarlo. A due passi dall’avamposto Usa forse si sente al sicuro.



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