L’Istituto Luce. Facce da italiani

L’Istituto Luce. Facce da italiani

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AGENZIA DI STATO E DI REGIME, l’Istituto Luce (che compie novant’anni) osservò anche dopo il fascismo un riguardo propagandistico, sicché le sue immagini sono soprattutto un documento di ciò che si voleva far vedere (dunque di ciò che si voleva oscurare). Ma le immagini sono ambigue, e non di rado tradiscono l’intenzione di chi le censura e le mette in mostra. E il potere, i poteri, hanno una loro ottusità, se non un’ingenuità, che a volte ritorce contro di loro le figure dalle quali vogliono farsi rappresentare. Con la differenza, enorme, che passa tra il controllo ferreo del fascismo e l’autocontrollo, diciamo così, della democrazia repubblicana, le fotografie del Luce sono pressoché tutte delle pose, e il loro catalogo somiglia un po’ a un lunghissimo Villaggio Potëmkin — quei leggendari villaggi di cartapesta fatti di sole facciate da far percorrere dalla zarina in visita. La verità di una persona o di un paese è raccontata altrettanto dal modo in cui si mette o viene messo in posa che dalle immagini prese all’improvviso.

Drammatico e nostalgico il giudizio di Pasolini: «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. […] Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria)».
GIUDIZIO FIN TROPPO FACILMENTE CONTESTABILE , tanto più che il nuovo modello riguarda il pianeta intero, e in Italia fu più precipitoso e travolgente che altrove, ed è in Cina o in Africa più travolgente di quanto non sia stato nell’Italia del miracolo, e così via. È un fatto tuttavia che la censura rigida che il fascismo — e Mussolini in persona — esercitava sulle immagini finiva per essere più vulnerabile alla critica e all’impazienza popolare che non le immagini “pluralistiche” e ubique della società libera. Ebbi un nonno pugliese amato, figlio di nessuno e contadino e analfabeta e monarchico, che mise le scarpe per andare alla guerra del ‘15 (e fu assegnato alla custodia dei cani San Bernardo!), e quando gli sembrava che noi nipoti la sparassimo troppo grossa, scuoteva la testa e commentava: «Ne tenete film Luce!», e voleva dire che ne avevamo di grilli per il capo. Dunque, che i film Luce non avessero molto a che fare col mondo reale era opinione larghissima. Tra le fotografie raccolte nel volume curato da Gabriele D’Autilia, colpiscono di più quelle della povertà finalmente autorizzate nel dopoguerra, una povertà che fa già intravvedere il suo riscatto, che forse è la cifra più essenziale di quella costellazione di forme e significati che va sotto il nome di neorealismo. Pezze al culo, dignità e futuro: così in una foto di famiglia, con un decisivo ragazzino in primo piano, per l’assegnazione delle terre ai contadini, che ha ancora qualcosa di sovietico, e sembra un vero manifesto. La giacca del ragazzino è uno straccio dignitoso, la mano tra le mani della nonna, i due guardano lontano con una faccia seria e un po’ abbagliata dalla luce, e appena dietro la madre col bambino in braccio sorride come antivedendo la redenzione che li aspetta: una Sacra Famiglia neorealista. Fotografie più o meno edificanti mostrano carceri e detenuti per i quali si profila un’istruzione e una riabilitazione. Ce n’è una che potrebbe anche non appartenere a un detenuto — la distanza fra un carcerato e un libero dovrebbe essere provvisoria — ma che compendia, nella sua normalità, i segni del tempo: un giovane di spalle, in canottiera, catenina al collo, unghie mangiate, capelli neri e lucidi tra i quali passa un pettinino. Ci sarà un cronometrista di facce capigliature e fogge come Pasolini a dire quando gli italiani maschi hanno smesso di portarsi un pettinino in tasca e usarlo disinvoltamente in pubblico durante la giornata. Ancora degli anni Cinquanta è la foto di un uomo seduto, ha addosso un cappottone di panno. Oggi non c’è più memoria di quei pastrani, e neanche la parola si userebbe più, o di quelle coperte che riparavano dal freddo non con la lana ma col peso. L’uomo è senza cravatta, ha una faccia cotta dal sole, sarà un capomastro edile o un emigrato in Svizzera di ritorno, è seduto e mostra un fascio di banconote di grosso taglio — sono le diecimila lire — dentro un berretto. Anche i soldi di allora valevano tanto più quanto più erano larghi. La foto vuole illustrare il miracolo economico: soldi caduti dal cielo e raccolti nel cappello. Infatti, si tratta di una vincita al Totocalcio. Il grande cambio avviene fra i Sessanta e i Settanta. Il confronto tra le manifestazioni del 1972, giovani del “movimento” da una parte ed edili metalmeccanici e statali dei tre sindacati dall’altra, è eloquente. Sembrano ancora davvero due Italie, e non solo per l’età rispettiva, o l’abbigliamento, o l’ostentato passo di corsa e a ranghi sparsi degli uni (ahi, e i disabili?) e il massiccio e compatto procedere degli altri: quello che colpisce più della differenza di età è che gli uni esibiscono la propria gioventù e ne annunciano già la lunga e ostinata durata, mentre gli altri appartengono ancora a un mondo in cui non si vedeva l’ora di smettere d’esser giovani per sembrare adulti e maturi, un mondo maschile governato dalla precocità del lavoro e della responsabilità. Le donne, in questo gremito corteo, non si trovano nemmeno con la lente d’ingrandimento, ma una precocità altrettanto e più urgente bruciava la loro gioventù


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