Mitra, croci e nostalgia di Saddam. I cristiani in fuga da Mosul
KARAKOSH — Pattuglie armate ad ogni angolo. Gli uomini di guardia sono visibili dovunque: sui tetti delle case, attorno agli accessi sbarrati delle fabbriche, delle fattorie agricole, presso le cliniche, di fronte agli edifici pubblici, ma soprattutto nei pressi delle chiese e delle scuole religiose. Ai villaggi si accede solo dopo accurati controlli ai posti di blocco. Mitra e croce: fa strano vedere giovani e meno giovani civili cristiani con i Kalashnikov imbracciati, bandoliere cariche di proiettili e pistole alle cinture. «Siamo tutti volontari. Abbiamo scelto di difendere le nostre comunità e i nostri villaggi dal pericolo degli estremisti islamici. Grazie a Dio siamo aiutati dai peshmerga, le forze armate curde, che ci garantiscono sostegno e logistica. Da soli saremmo sicuramente spacciati», ammettono. Ma impera la paura. Una paura visibile, palpabile, onnipresente. Le avanguardie dei radicali sunniti, in particolare dello «Stato Islamico in Iraq e del Levante», solo lunedì scorso sembrava potessero arrivare anche qui da loro. Avevano preso Mosul, una trentina di chilometri più a sud. E i loro gipponi sfilavano veloci tra i campi di grano e nubi di polvere in località ancora più prossime. Ma poi sono arrivati i rinforzi curdi e la situazione si è stabilizzata.
Ieri ci siamo recati in uno dei centri tradizionali del cristianesimo iracheno. Karakosh, anche conosciuto come Bakhdida o Hamdania, una regione famosa per le vigne, ma soprattutto per i resti delle chiese antiche di 1.500 anni, cimiteri dalle croci scolpite nelle pietre che precedono di uno o due secoli l’avvento dell’Islam, monasteri testimoni del primo cenobitismo. In tempi diversi sarebbe eccitante raccontare questa culla della civiltà cristiana orientale, dove le scritte sulle lapidi sono in aramaico, caldeo, greco. E i fedeli parlano dei santi con genuino fervore come di presenze immanenti. «Le nostre chiese sono state le uniche a non essere mai state sotto il controllo di un potere temporale cristiano. Più a nord, in Turchia, Palestina, Egitto e Siria, le antiche comunità cristiane vissero le parentesi della tradizione romana costantiniana e dei bizantini. Ma noi abbiamo sempre dovuto fare i conti con autorità ostili, a partire dai persiani, i califfati sunniti e gli stessi curdi», ricorda tra i tanti padre Paolo Thabib Habib, 37 anni, parroco nel villaggio di Karmless. Purtroppo oggi siamo costretti a ripetere un mantra ormai tristemente monotono: intere comunità che si riducono di anno in anno, chiese sempre più evanescenti, ma soprattutto il terrore della persecuzione da parte dei fondamentalisti islamici, ragazze costrette a mettere il velo, attentati e minacce continue. Un fenomeno diffuso dall’Egitto alla Siria sino all’Iraq dell’era post Saddam Hussein. Qui la svolta verso il peggio ha una data precisa: domenica 1° agosto 2004. Erano trascorsi 16 mesi dall’arrivo delle truppe Usa a Bagdad. «A noi non piace affatto la dittatura di Saddam. Ma almeno garantisce la difesa dei cristiani. Dopo di lui, per noi sarà la catastrofe», aveva predetto l’ex patriarca caldeo Emmanuel Delly nel periodo concitato precedente la guerra del 2003. E la serie di attentati contro le chiese gremite di fedeli a Mosul e Bagdad in quell’afosa giornata di agosto costituì il tragico inveramento delle sue parole. Da allora il numero dei cristiani iracheni è sceso da quasi un milione e mezzo a circa 450.000. La grande maggioranza era concentrata a Bagdad. Ma poi sono emigrati all’estero, oppure scappati qui, nella provincia di Ninive, a sud delle regioni autonome curde, presso Mosul e la fitta rete di villaggi agricoli attorno a Karakosh. Si calcola che nell’area siano oggi circa 200.000. A Mosul da tempo subiscono gravi attacchi: erano 130.000 nel 2003, scesi a 10.000 un anno fa, pare precipitati a meno di 2.000 da lunedì scorso. E sta qui un altro aspetto tragico della loro fuga nell’ultima settimana. «Siamo diventati profughi due volte. Prima da Bagdad e adesso da Mosul», spiega il 61enne Imad Al Din Eliah, docente all’università regionale, che da due giorni ha affittato una casetta a Karmless. «A ben vedere, anche i jihadisti più fanatici adesso cercano di rassicurarci. Ci spiegano che loro combattono contro i soldati sciiti del presidente Nouri al Maliki, che non hanno nulla contro i cristiani. Addirittura hanno posto servizi di guardie alle basiliche di Mosul. Ma chi ci assicura che non cambieranno? In passato hanno ucciso sacerdoti, minacciato le ragazze». Sua figlia Samah, una timida 25enne impiegata alla municipalità di Mosul, è molto più determinata: «Sino a qualche giorno fa ero certa che sarei morta qui, dove sono nata. Ma quel che è troppo è troppo. Questi fanatici islamici rappresentano un pericolo totale. Mi fanno sentire straniera in casa mia. Non penso più che alcuna ragazza cristiana possa avere futuro in un Paese dominato dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, o dai suoi simili».
Mentre parla il padre riesce a far ripartire il generatore (nella zona elettricità ed acqua arrivano a singhiozzo) e il canale della tv curda diffonde le ultime notizie. Ad una cinquantina di chilometri da Karakosh la guerriglia sunnita ha conquistato l’ennesima città: è Tal Afar, centro vitale per il controllo della provinciale che da Mosul porta al confine con la Siria e tra i cui 200.000 abitanti si contano numerosi sciiti. Sono paventati massacri. L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha confermato ieri le notizie di centinaia di esecuzioni sommarie di civili sciiti che «quasi certamente costituiscono crimini di guerra». Per contro, il regime trasmette video dei raid aerei contro posizioni sunnite a Tikrit e ad ovest della capitale. I centri di reclutamento di Maliki segnalano lunghe code di volontari, specie nelle città sciite del sud, a Bassora, Karbala e Najaf. A Karakosh i comandi curdi hanno spostato altri mille peshmerga a sorvegliare la rete di stradine conducenti a Tal Afar.
Lorenzo Cremonesi
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