La riforma della P.A. in quattro mosse

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Come tutte le altre, anche la riforma della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione pro­mossa da Renzi con­si­ste di grandi annunci e di pochi prov­ve­di­menti imme­diati che basto­nano alcuni per far con­tenti altri, riman­dando il “sodo” al dopo. Si dimez­zano i per­messi sin­da­cali; si impone una mobi­lità anche ter­ri­to­riale (fino a 50 km, che non sono pochi) e si allarga l’area dello spoil system nelle posi­zioni api­cali.
Il bastone è per i pub­blici dipen­denti, iden­ti­fi­cati come causa dell’inefficienza dell’“azienda Ita­lia”. Quelli da far con­tenti sono i poli­tici che potranno avere diri­genti obbe­dienti e i Bru­netta di turno: cioè chi pensa, e non sono pochi, “pub­blici dipen­denti = fan­nul­loni”. Quanto al rior­dino verrà in un secondo tempo… Ma intorno alla Pub­blica Ammi­ni­stra­zione si accu­mula in realtà un gro­vi­glio di pro­blemi che inve­ste l’insieme della società italiana.

Il primo è quello della produttività

L’Italia, si dice, con­ti­nua a per­dere posi­zioni nei con­fronti dei part­ner euro­pei. Ma la pro­dut­ti­vità del lavoro si misura con il rap­porto tra valore aggiunto (che aggre­gato a livello nazio­nale è il Pil) e ore lavo­rate. Ad aumen­tare que­ste (il deno­mi­na­tore) a parità di pro­dotto con­cor­rono molti costi ammi­ni­stra­tivi (ingenti per­ché sono troppi, in ter­mini di tempo e impe­gno di per­so­nale, gli adem­pi­menti a cui fare fronte, die­tro a cui si rea­liz­zano spesso vere e pro­prie estor­sioni) e molte finte assun­zioni di chi sta lì e non pro­duce niente. Men­tre a ridurre il valore aggiunto (il nume­ra­tore) con­corre tutto ciò che viene regi­strato come costo diverso da quello del lavoro: sia le tan­genti in senso stretto, nasco­ste sotto altre voci, che le rega­lìe e le con­su­lenze di cui è gra­vato chiun­que lavori in tutto o in parte per la pub­blica ammi­ni­stra­zione; poi i costi di un’urbanizzazione sel­vag­gia (la logi­stica di un tes­suto pro­dut­tivo costruito senza piani non per­dona) e quelli di una infra­strut­tu­ra­zione distorta per­ché il sistema dei tra­sporti manca di un dise­gno com­ples­sivo.
Sono tutte cose che dipen­dono dalla poli­tica, ma che pas­sano attra­verso la pub­blica ammi­ni­stra­zione, inci­dendo spesso sul ren­di­mento dell’impresa ben più del costo del lavoro o dei gua­da­gni gene­rati dagli investimenti.

Il secondo pro­blema si chiama pub­blico o privato?

Stato o mer­cato? Fin­ché ci si attiene al dogma che pri­vato è effi­ciente e pub­blico no, non se ne esce. Per­ché l’intreccio tra pub­blico e pri­vato è tal­mente stretto – spe­cie, ma non solo, quando sono in ballo opere e ser­vizi pub­blici o for­ni­ture con­nesse – che è impos­si­bile distin­guere tra l’uno e l’altro. Il pub­blico, si dice, è sot­to­po­sto a tutte le pres­sioni della poli­tica, del clien­te­li­smo, del fami­li­smo; non ha un cri­te­rio per misu­rare le sue per­for­mance, per­ché l’unico cri­te­rio valido è il pro­fitto, cioè il rap­porto costi-ricavi, a cui pre­sta atten­zione solo chi rischia in pro­prio un capi­tale. Per que­sto Renzi con­ti­nua l’attacco dei suoi pre­de­ces­sori con­tro i ser­vizi pub­blici: per pri­va­tiz­zarli. Ora, solo per fare un esem­pio, con­fron­tate quell’affermazione con que­sta: «il Maz­za­cu­rati spiega che il magi­strato delle acque non è in grado di assu­mere 30 o 40 per­sone, ‘allora gliele assu­miamo noi’». (Cor­riere della sera, 15.6.2014). «Noi» sta per Con­sor­zio Vene­zia nuova, ente pri­vato; il magi­strato delle acque, invece, è un ente pub­blico. E’ così dap­per­tutto. Per­ché l’alternativa non è tra pub­blico e pri­vato; è tra pub­blico e pri­vato, da un lato, e comune, cioè tra­spa­rente e par­te­ci­pato, dall’altro. Ci torneremo.

Il terzo pro­blema si chiama merito

E’ l’ideologia uffi­ciale della com­pe­ti­zione di tutti con­tro tutti, estesa dal mondo delle imprese a quello del lavoro. Ogni lavo­ra­tore deve met­tersi in com­pe­ti­zione con i suoi com­pa­gni: per un avan­za­mento o per evi­tare un arre­tra­mento, che può anche essere il licen­zia­mento; e i lavo­ra­tori di ogni impresa devono met­tersi in com­pe­ti­zione con quelli di tutte le altre per non soc­com­bere insieme alla loro impresa. La stessa logica si vuole intro­durre nella PA. Il con­cetto di merito, che nasconde le dise­guali con­di­zioni di par­tenza, ma anche la dise­gua­glianza dei vin­coli a cui si è sog­getti o dei con­te­sti in cui si opera, è ciò che dovrebbe deci­dere chi vince e chi perde e legit­ti­marne il risul­tato. Ma chi decide del merito? La gerar­chia, cioè chi si trova già “al di sopra”; e non per merito, ma per qual­che altro motivo. Altri­menti con la sto­ria del merito si risa­li­rebbe all’infinito. Così, affi­dando ai diri­genti il com­pito di valu­tare se stessi e i pro­pri dipen­denti, non si fa che per­pe­tuare i vizi che si pre­tende di correggere.

Il quarto pro­blema si chiama spen­ding review

Il governo deve cavare dalla spesa pub­blica 30 miliardi in tre anni per far fronte ai vin­coli di bilan­cio. Anzi, dal 2016 dovrà cavarne fuori altri 50 ogni anno per rispet­tare il fiscal com­pact. Come si fa? Si tagliano i ser­vizi per ripa­gare debito pub­blico e inte­ressi e si affida ai diri­genti della PA il com­pito di deci­dere quali ser­vizi sop­pri­mere. Se non ci rie­scono si pro­ce­derà con tagli lineari. In ogni caso la qua­lità del ser­vi­zio pub­blico peg­giora dra­sti­ca­mente e così si potrà dire che pri­vato è bello; anche nei casi, come la sanità, in cui il pri­vato si regge inte­ra­mente su soldi pubblici.

Come uscirne? Come ovun­que, con una com­bi­na­zione di par­te­ci­pa­zione e con­flitto. Par­te­ci­pa­zione vuol dire che ad affron­tare i pro­blemi – inef­fi­cienza, cor­ru­zione, clien­te­li­smo, pri­vi­legi, opa­cità – e a defi­nire le solu­zioni non pos­sono che essere, in forma con­di­visa, gli inte­res­sati: i dipen­denti pub­blici, uffi­cio per uffi­cio, in un con­fronto aperto con gli utenti e con la cit­ta­di­nanza, che quel ser­vi­zio lo pagano con le tasse, o con una loro rap­pre­sen­tanza. In ogni ospe­dale, un uffi­cio finan­zia­rio, un’anagrafe o una scuola – o qual­cosa di pre­sunto tale, come un Mose o un Expo – chi si trova a lavo­rare al suo interno o ai suoi con­fini ne sa abba­stanza per rico­struire, in un con­fronto aperto con col­le­ghi, cit­ta­di­nanza attiva e utenti, un qua­dro di insieme di quel che succede.

Non si capi­sce per­ché solo Raf­faele Can­tone, e solo ora, debba avere accesso a dati come bandi, gare, con­tratti e bilanci che, resi noti a tutti per tempo e in forma leg­gi­bile, costi­tui­scono uno dei pre­sup­po­sti ine­lu­di­bili della demo­cra­zia: cioè la tra­spa­renza; ovvero, open data, come la chiama Mas­simo Vil­lone (il mani­fe­sto, 12.6.2014). Tesi con cui con­cordo, men­tre dis­sento dall’altro rime­dio pro­po­sto: il whi­ste­blo­wer, cioè affi­dare all’iniziativa del sin­golo la denun­cia di ciò che non fun­ziona o che è aper­ta­mente ille­gale, garan­ten­do­gli ade­guate pro­te­zioni. Natu­ral­mente ben venga il whi­stle­blo­wer; ma quello di cui c’è biso­gno è un’azione col­let­tiva: la pos­si­bi­lità per i dipen­denti, in con­trad­dit­to­rio con utenti e con­tri­buenti, di entrare nel merito di come deve essere orga­niz­zato e fun­zio­nare il loro ser­vi­zio e di che cosa deve essere sop­presso, cam­biato, o denun­ciato come ille­gale. Natu­ral­mente nel rispetto delle com­pe­tenze spe­cia­li­sti­che, che devono però essere anche loro sot­to­po­ste a un con­trad­dit­to­rio tra pari. (In un con­te­sto del genere diven­te­rebbe più sem­plice anche affron­tare la mobi­lità interna: libe­rare gli uffici affol­lati da per­so­nale inu­tile, per­ché inu­tili sono le pra­ti­che e le atti­vità che svolge, per tra­sfe­rirlo su base volon­ta­ria, con deci­sioni con­di­vise e con ade­guati per­corsi di for­ma­zione, ad altri ser­vizi). Si tratta nel com­plesso di un’opera di autoe­du­ca­zione alla con­di­vi­sione delle respon­sa­bi­lità e un pre­sup­po­sto essen­ziale per rifon­dare dal basso la demo­cra­zia. Ed è anche l’unico metodo effi­cace per ripor­tare la spesa pub­blica non entro i para­me­tri del fiscal com­pact, ma entro quelli della soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale. Il Mose dovrebbe insegnarlo.

Uto­pia? No. C’è anche chi ha già cer­cato di met­tere in pra­tica que­sta linea di con­dotta di ele­men­tare buon senso. Due anni fa avevo avan­zato su que­sto gior­nale una pro­po­sta del genere. Mi aveva rispo­sto una dipen­dente del Comune – guarda caso! – di Vene­zia, docu­men­tando un’iniziativa simile che aveva preso con nume­rosi col­le­ghi: ave­vano fatto parec­chie riu­nioni e messo a punto altret­tante pro­po­ste; ma il pro­cesso era stato ben pre­sto bloc­cato dalla diri­genza. In quella let­tera non si par­lava del Mose. Ma è chiaro che un Comune che da anni si regge in quel modo, un pro­cesso di con­di­vi­sione del genere non se lo poteva permettere.



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