Siria. In quel calvario il declino morale dell’Occidente
La guerra civile in Siria dura da tre anni e con la discesa in campo dei jihadisti non si sa più chi siano i buoni e chi i cattivi. Da lì arrivano soltanto notizie di massacri, di torture, di donne e bambini uccisi come gli altri se non di più. (Nelle foto, le macerie di un palazzo vicino a Homs e Bashar Assad e la moglie Asma al voto)
E poi arrivano i numeri, meno sicuri di prima perché l’Onu si è stufata di fare il conto: 162 mila morti, nove milioni di sfollati.. Lo scorso anno Obama stava per premere un grilletto poco impegnativo, ma poi non ha fatto nemmeno quello. Gli altri hanno smesso persino di agitarsi ai tavoli della diplomazia. Forse perché è meglio alzare le mani e guardare altrove, è meglio trasformare l’assuefazione in resa definitiva?
No, non è meglio. Il calvario della Siria è invece un segnale che supera la nostra vergogna repressa, e che fornisce una cruciale indicazione strategica: la terra dove accadono mattanze quotidiane, la terra dove Bashar al Assad sta avendo la sfrontatezza di farsi «rieleggere» tra cannonate e bombardamenti, è diventata lo specchio del declino dell’Occidente.
Sappiamo bene che riportare la pace in quel che resta della Siria è oggi «mission impossibile», soprattutto dopo aver perso mesi e anni senza muovere un dito. Nei suoi confini si combatte un conflitto tra musulmani sunniti e musulmani sciiti che coinvolge gran parte del mondo arabo, che ha radici profonde nel Golfo ed è esploso anche in Iraq mentre cova nel Libano. Non stupisce che l’alauita Assad (della famiglia sciita) venga appoggiato dall’Iran, dagli Hezbollah libanesi e da una parte degli iracheni, mentre i sunniti aiutano la resistenza. Ma una terza variabile ha reso se possibile più complicata l’equazione: i jihadisti e qaedisti prima hanno infiltrato i rivoltosi, poi sono diventati i più forti tra loro. E oggi accolgono gli europei in cerca di emozioni forti, addestrano al terrorismo individui come Mehdi Nemmouche, il probabile autore dell’attacco al Museo ebraico di Bruxelles. Niente forniture di armi sofisticate agli oppositori, dunque, perché potrebbero finire in mano ai cattivi. Le armi chimiche, quelle, c’erano già prima della guerra e probabilmente sono state usate da entrambi gli schieramenti (ora Assad se ne disfa con calcolata lentezza). E così, poco a poco, le forze governative avanzano, schiacciano, bruciano, piantano la bandiera sulle rovine di Homs e distruggono Aleppo con i «barili esplosivi» lanciati dal cielo.
Il rompicapo è davvero tale. Ma per quanto complicata e carica di insidie, la sfida è lanciata: può l’Occidente lasciare che la strage continui indisturbata per chi sa quanto tempo ancora? Non è forse vero che oltre alla intollerabilità umanitaria di quanto accade in Siria in gioco ci sia anche un formidabile logoramento della credibilità, dell’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati, vale a dire dell’Occidente? Qui non si parla nemmeno di guerre sbagliate (l’Iraq, a mio parere) o di guerre non vinte (l’Afghanistan, a mio parere). Qui siamo al cospetto della più grave, della più imperdonabile delle colpe: un’assenza che gronda sangue.
Nella sua campagna più interna che internazionale per rispondere alle accuse di debolezza, Barack Obama, oltre a mostrare i muscoli in Ucraina e dintorni, ha deciso di addestrare i ribelli siriani «moderati» e, indirettamente, di armarli un po’ meglio. Supponendo che i «moderati» possano essere individuati con certezza, Assad e i jihadisti (nemici tra loro e nemici dei «moderati») dovrebbero forse avere paura?
Piuttosto, è giusto riconoscere che grande è stata in questi anni l’influenza delle opinioni pubbliche e della loro stanchezza di guerre. Non è forse per questo che Obama, pur vedendo superata la sua «linea rossa» sulle armi chimiche, non colpì Assad lo scorso autunno, si rifugiò in una paradossale richiesta di parere al Congresso e consentì così a Putin di ridimensionarlo davanti al mondo? Le opinioni pubbliche è giusto tenerle in conto. L’Occidente è anche, è soprattutto questo: democrazia. Anche quando la Camera dei Comuni dice no. Anche quando Parigi pensa sì, ma per farlo evita di ascoltare il parere dell’Assemblée. E trovo sacrosanta la dottrina Obama che nasce dalla pesante eredità di Bush, e che si affida alla guerra soltanto in ultima istanza. Ma esiste anche un principio, stabilito dall’Onu, che si chiama «Responsibility to Protect», responsabilità di proteggere. Cosa ne è rimasto in Siria, dopo tre anni di carneficine? Non è anche questo un ideale, come quelli che identificano nella guerra il male supremo?
Non è immaginabile, beninteso, un intervento militare in Siria che infiammerebbe tutta la regione. Ma credo che le opinioni pubbliche occidentali capirebbero, ancora oggi, misure più efficaci delle gesticolazioni che abbiamo visto sin qui. Una no-fly zone opportunamente circoscritta (non come quella applicata alla Libia) e abbinata alla creazione di corridoi umanitari, per dirne una. Assad e jihadisti si opporrebbero, la Russia che tiene al porto di Tartus quasi quanto a quello di Sebastopoli bloccherebbe il Consiglio di sicurezza? L’Occidente si è già trovato nei Balcani in una simile contingenza, e sa come affrontarla. Difficile, difficilissimo. Ma c’è una sola cosa che l’Occidente non può continuare a fare se non vuole finire di screditarsi: niente.
Franco Venturini
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