A Vienna prove d’intesa Usa-Iran L’America schiera navi e droni

by redazione | 17 Giugno 2014 12:27

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WASHINGTON — I movimenti nella crisi irachena sono talmente rapidi da non dare il tempo agli oppositori di dire «ma». E nello spazio di pochi giorni sono accadute cose impensabili. Come il dialogo Iran-Usa, un avvicinamento che può sfociare in asse per fermare gli estremisti sunniti dell’Isis. Un movimento accompagnato da molte cautele.
Gli scontri sulla via per Bagdad e il negoziato sul nucleare a Vienna hanno aperto una finestra temporale eccezionale. Americani e iraniani si sono ritrovati nella capitale austriaca per discutere del possibile accordo «atomico». Resteranno quattro giorni. Teheran ha mandato il ministro degli Esteri Mohammed Zarif, Washington il sotto segretario Bill Burns. Una presenza ad alto livello che permetterebbe di discutere «a margine» di quanto sta avvenendo in Iraq. Sul come condurre la nuova politica le posizioni non sono compatte. Il segretario di Stato John Kerry ha ribadito l’apertura a contatti diretti sull’Iraq, quindi, sbilanciandosi un po’ troppo, non ha escluso una cooperazione militare. Una posizione corretta, qualche ora dopo, da Pentagono e Casa Bianca. Non consulteremo gli iraniani prima di un’eventuale azione — ha sottolineato una fonte — e non pensiamo di condurre azioni in tandem. Una precisazione inevitabile. I mullah sono dei rivali, diversi esponenti vicini ai pasdaran sono nella lista nera statunitense e alcune delle milizie filo Iran in passato hanno colpito le unità Usa in Iraq. Non c’è solo ruggine, ma anche sangue. «La strada è ancora lunga», ha dichiarato un alto funzionario.
Patto pragmatico
Pur con questo fardello pesante, Barack Obama vuole vedere se esistono i margini per un patto pragmatico e ha convocato di nuovo i suoi consiglieri per la sicurezza al fine di esaminare le opzioni. Gli iraniani conoscono bene l’Iraq, hanno i loro apparati clandestini in azione sul terreno, sono determinati nel contrastare la minaccia dell’Isis. Ovviamente non lo fanno per il bene comune, ma perché considerano l’Iraq il cortile di casa. Dunque vogliono tutelare l’area di influenza e questo, nel lungo termine, può riaprire le tensioni. Da qui la prudenza evidenziata anche dall’avvertimento Usa all’Iran a non accrescere le tensioni. La svolta della Casa Bianca ha trovato un insolito alleato in Lindsay Graham. Il senatore repubblicano ha randellato il presidente e la sua politica estera, però si è espresso in favore della collaborazione con Teheran. Non è poco, in quanto Graham è sempre stato duro verso i mullah. Però, in queste circostanze non ci sono molte alternative. A meno di non voler rimandare i soldati americani. La risposta militare deve essere contenuta e — chiarisce la Casa Bianca — «non sarà all’infinito».
Forze militari
Ieri il Pentagono ha annunciato l’arrivo nel Golfo Persico della nave d’assalto anfibio «Mesa Verde». A bordo 550 marines e velivoli da trasporto Osprey. Il reparto è in stato d’allerta nel caso ci sia da evacuare l’ambasciata-fortezza a Bagdad dove lavorano 5 mila dipendenti. Per ora parte dello staff è stato spostato a Bassora, Erbil e Amman. Sono invece stati schierati altri 100 soldati americani che dovranno aumentare le difese della rappresentanza. Sempre nella zona del Golfo è operativa la portaerei Bush con due incrociatori di scorta. Mobilitate anche forze in Turchia e Giordania. Nei cieli iracheni volano da giorni i droni statunitensi decollati dalla base turca di Incirlik. Secondo la versione ufficiale conducono solo operazioni di ricognizione per seguire l’Isis. In realtà il dispositivo attende un ordine d’attacco e Kerry ha citato proprio un probabile ricorso ai velivoli senza pilota. Un’altra opzione è quella di inviare piccoli nuclei di forze speciali.
Osservatori interessati, infine, i sauditi e gli israeliani, due alleati preoccupati per il disgelo Usa-Iran. Riad ha attribuito il disastro alla «politica confessionale» del premier Maliki ed ha chiesto un governo di unità nazionale. I principi, spesso accusati di trescare con parte del movimento jihadista, temono di perdere posizioni nel lungo duello con Teheran. Kerry li ha chiamati, analoghe telefonate sono partite verso Emirati e Qatar per spiegare che anche gli Usa pretendono riforme a Bagdad. Anzi, secondo i media i raid sono subordinati ad un cambio di politica da parte dell’Iraq. Difficile credere che questi colloqui possano bastare in un teatro con attori molto dinamici. Rappresentanti del Kurdistan sono andati in Iran dove li ha ricevuti il capo del consiglio di sicurezza nazionale Alì Shamkani. Una riprova di come molte strade portino a Teheran.
Guido Olimpio

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