Colpito il centro disabili palestinese Salgono le vittime tra civili e bimbi

by redazione | 13 Luglio 2014 10:01

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GERUSALEMME — Seguite le mosche. In quella stanza — dicono i testimoni — dormivano in sei, le sedie a rotelle appoggiate vicino ai letti. A piano terra un centro per disabili, sopra (forse) la casa di un comandante della jihad islamica. Il missile israeliano centra le stanze da basso, in quattro restano feriti: Ola Washahi, 30 anni, viene uccisa dall’esplosione, il corpo di Suha, 47, non si trova. I soccorritori hanno seguito le mosche.
I colpi di avvertimento lasciati cadere da due droni prima dell’alba non li hanno svegliati e anche avessero sentito quel doppio rintocco sul tetto sarebbe stato difficile per loro riuscire fuggire. Jamala Alaywa ha creato l’istituto nel 1994 a Beit Lahiya, nord della Striscia di Gaza, verso il valico con Israele. Ospita tredici pazienti, al momento dell’attacco la maggior parte era in visita dai parenti per il fine settimana, a celebrare in qualche modo il Ramadan, il mese di digiuno sacro per gli islamici. Li chiama i miei «bambini», sono ormai adulti, Ola e Suha vivevano lì da dieci anni: «Hanno paura, eppure non si rendono conto di quale sia la situazione, non capiscono che c’è una guerra in corso attorno a loro», racconta all’agenzia France Presse .
I raid e i bombardamenti vanno avanti senza fermarsi da cinque giorni. Le Nazioni Unite hanno conteggiato (fino alle 15 di venerdì): 700 sortite dell’aviazione, 1.100 missili e 100 proiettili sparati dai carrarmati, 330 cannoneggiamenti dalle navi al largo di Gaza, un’esplosione ogni 3 minuti e mezzo. I morti sono almeno 160 (55 uccisi ieri), l’80 per cento civili, tra loro donne e bambini. La contabilità della morte è tenuta dagli ospedali nella Striscia, dove ormai mancano le medicine e il sangue per le trasfusioni. Gli egiziani hanno aperto solo per qualche ora il valico di Rafah a Sud, hanno lasciato passare i feriti più gravi, in centinaia sono rimasti ammassati dietro le barriere della frontiera: da qui non si può scappare, Gaza non produce profughi.
I generali di Tsahal hanno esportato una nuova tattica in questa operazione. Era usata in Cisgiordania durante la seconda intifada, abolita nove anni fa perché considerata inefficace, reintrodotta a Hebron nelle scorse settimane dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani. Le case di chi è considerato un comandante o un miliziano dell’esercito irregolare di Hamas o della jihad islamica vengono ridotte in macerie, in Cisgiordania è il lavoro degli artificieri, a Gaza delle bombe dal cielo: tra 75 e 83 edifici — stima sempre l’Onu — sono stati demoliti con questa pratica. B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, la considera illegittima: «Anche se i famigliari vengono avvertiti, l’appartamento è vuoto e non ci sono vittime, resta una punizione inaccettabile».
L’esercito israeliano ha diffuso i video girati dalle telecamere installate sui droni. Mostrano i missili schizzare verso l’alto, verso le città israeliane, da postazioni nascoste tra i palazzi. In totale le case danneggiate dai bombardamenti sono 537. «Hamas e le altre organizzazioni terroristiche — dice Peter Lerner, portavoce delle forze armate — hanno incastrato in profondità tra la popolazione i loro arsenali e le rampe di lancio. Usano anche le moschee per occultare le armi e i tunnel scavati a scopi militari. Tengono in ostaggio la popolazione e la sfrutta come scudi umani».
Anas ha lasciato le ultime parole su Facebook , un messaggio in bottiglia nel mare digitale: «Dio, ti prego, abbi pietà di me, non dormo da ieri. Che la nostra casa sia colpita, così la faremo finita una volta per tutte». A 17 anni — scrive l’agenzia Ansa — non riusciva a sopportare le esplosioni, il ronzio costante dei droni, come tagliaerba che tranciano il cielo. Anas Qandil è morto in un bombardamento mentre si trovava in un palazzo di via Nasser. Gli amici a Gaza ricordano che il padre era stato ucciso dagli israeliani, che Anas si esaltava per le azioni delle Brigate Ezzedin Al Qassam, l’esercito irregolare del movimento fondamentalista. La sua foto su Facebook contrasta con la disperazione: un ragazzo che sorride, seduto sulla staccionata.
Hassan racconta di quando ha trovato il diario di suo figlio, un ragazzino di 14 anni, nei giorni dell’operazione Piombo Fuso, tra la fine del 2008 e il gennaio del 2009: scriveva di volersi uccidere, tirava fuori al mattino gli incubi della notte. È stato in cura, sembra essersi ripreso. Dalla sua prima crisi, Israele e Hamas si sono affrontate ancora nel 2009 per otto giorni e adesso in questa settimana che non finisce.
Davide Frattini

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