Dentro Hamas è sfida tra pragmatici e falchi all’ombra di Teheran

by redazione | 16 Luglio 2014 8:41

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GERUSALEMME. MESSI all’angolo dal mondo arabo, derisi dalle tv egiziane per la loro ossessione per la jihad, per lo sfruttamento della popolazione civile di Gaza che, come avviene in questi giorni, è solo un utile strumento di propaganda. È l’ora più buia per la leadership di Hamas, nella Striscia e all’estero. «Se Hamas pensa di trascinare il mondo arabo nella sua inutile guerra contro Israele che è costata solo sangue dei civili palestinesi sbaglia i suoi calcoli», ha detto ieri pomeriggio lo speaker ufficiale della tv di Stato egiziana, incarnando quel sentimento di fastidio con il quale anche la Lega Araba ha discusso della crisi nella Striscia. Hamas non ha un vero leader con cui trattare e discutere e nasconde le sue divisioni nella “dirigenza collettiva“, perché ci sono troppe anime da mettere d’accordo e il vuoto di una proposta politica vera lascia spazio ai duri dell’ala militare. Non si arriva a un cessate-il-fuoco vero perché la leadership di Hamas è divisa, non in due ma almeno in tre parti. La partita sul futuro, e sulla sopravvivenza del movimento, si gioca su un tavolo dove siedono Khaled Meshaal, il leader in esilio da vent’anni, Ismail Haniyeh, il “premier” di Gaza e Mohammed Deif, il potente capo delle Brigate Ezzedin al Qassam.
Dietro l’atteggiamento di Hamas nel voler continuare la guerra senza quartiere i duri intravedono la necessità del movimento islamico, rimasto orfano della Fratellanza musulmana, di accreditarsi presso il suo alleato di ieri, l’Iran, dal quale aveva “divorziato” tre anni fa in un contesto regionale assai diverso. Le disperate condizioni in cui si vive a Gaza e l’assenza di prospettive per loro e per i loro “fratelli” della Cisgiordania, spingono già da tempo i settori più vulnerabili della società locale a cercare risposte politiche e ideologiche alternative a quelle fallimentari fornite in questi anni dall’Anp e da Hamas. Il movimento integralista ha serie difficoltà a governare nella Striscia senza l’ossigeno che proveniva dal vicino Egitto. Per questo ha riaperto il canale di dialogo col suo principale fornitore di armi, l’Iran, e ha ripreso il “coordinamento” con gli Hezbollah libanesi perché «il nemico è comune», ha annunciato ieri il responsabile delle relazioni esterne Osama Hamdan al giornale “As Safir” di Beirut.
Khaled Meshaal è certamente quello che esce indebolito da questo confronto interno, è protetto dal potente emiro del Qatar e dalle altre petro-monarchie del Golfo ma la sua leadership non è inattaccabile. Lo stile di vita troppo borghese, gli hotel a cinque stelle, le limousine, e quei 12 milioni di dollari spariti dalle casse di Hamas dopo la chiusura frettolosa
a Damasco nel 2011 degli uffici di rappresentanza, ne hanno indebolito la figura e intaccato il carisma. Non ne esce meglio il “premier” Ismail Haniyeh. Non è mai stato considerato né uno stratega né una figura “senior”, ma il ruolo di premier in questi anni gli ha permesso — a lui nato da una famiglia di rifugiati nel campo profughi di Shati — di diventare rapidamente ricco. Terreni a Gaza per milioni di dollari, ben 13 case acquistate un po’ ovunque nella Striscia. Il figlio maggiore è stato arrestato tempo fa dal lato egiziano del valico di Rafah con una valigia con 15 milioni di dollari in contanti. Era denaro di famiglia o di Hamas? A Gaza scommettono sulla prima ipotesi.
Sono schierati invece tra i “duri e puri” i due capi di Hamas più inquietanti. Mahmoud Zahar, il “falco” filo-iraniano da sempre, coccolato da Khamenei durante le sue visite in Iran. Dopo un viaggio a Teheran anche lui venne fermato dalla polizia di frontiera egiziana con 26 milioni di dollari in contanti, pigiati in due valigie. Zahar odia l’Anp, odiava Arafat e ha lo stesso sentimento verso Abu Mazen, di cui non pronuncia mai il nome — come se fosse maledetto — quando ne parla si riferisce a lui come «quell’uomo». Ma in questi anni Zahar non è diventato ricco, la sua modesta casa a Zeitun è sempre la stessa. Il suo legame con Mohammed Deif — il capo del braccio armato — è strettissimo e questo fa di lui un intoccabile. È fra queste anime di Hamas che non si riesce a trovare il compromesso. Una parte della leadership di Gaza (Haniyeh) è incline ad accettare l’iniziativa e porre fine alla situazione attuale, l’altra ha pensato di respingere l’offerta di tregua e scegliere un approccio più radicale per ottenere condizioni migliori. Per nascondere meglio quella che in tutto il mondo arabo appare come una radicale sconfitta politica e militare, pagata ancora una volta più dalla popolazione civile che dagli “eroici” miliziani.

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