Tra i piccoli schiavi del cotone

Tra i piccoli schiavi del cotone

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BAGORA (RAJASTHAN DEL SUD). IN queste terre seccate dal sole e lontane dalle maggiori strade di scorrimento, nessuno chiede più di tanto a un destino segnato dall’origine di casta e dalle condizioni ambientali. I piccoli schiavi del cotone nascono sotto la cattiva stella dell’etnia Bhil che popola da secoli i villaggi di povertà atavica del Rajasthan meridionale, al confine col ricco Gujarat che da anni è la loro terra promessa e la loro dannazione, il luogo dal quale è sorto due mesi fa l’astro del nuovo premier dell’India Narendra Modi.
Non è facile vederli all’opera con le mani agili sui fiori o tra gli ingranaggi delle macchine che estraggono le fibre, perché i loro padroni sanno che sulla carta esistono leggi severe contro il lavoro minorile. Ma è possibile ascoltare le loro storie, raccontate con un filo di voce sotto gli alberi del banyan, o nel patio delle abitazioni che durante gran parte del giorno e della notte sono forni resi roventi dal clima di questo deserto. Tra le piantagioni e le fabbriche sono impiegati almeno 400 mila piccoli di tribù per lo più animiste e “fuoricasta” sotto i 14 anni, secondo cifre di poco migliorate dall’ultima statistica del 2007. È un fenomeno in parte ancora nascosto, ma diffuso dal Rajashan al Gujarat,
dal Maharastra all’Andra Pradesh, al Karnataka. Nel villaggio di Neinbhara, poche ore a sud dei laghi di Udaipur, incontriamo tre quindicenni che hanno già conosciuto la vita del lavoro forzato.
L’ombra dell’unico albero frondoso nel raggio di parecchi chilometri rende ancora più scuro il viso del quindicenne Vinod Sambu, che si reca nei campi del Gujarat da quando ne aveva 11. Poco più in là giace la carcassa di una capra uccisa dal caldo, ma nessuno sembra farci caso. Vinod dice di venire dal villaggio di Lalji, dove la sua famiglia di quattro fratelli e sorelle conta soprattutto su di lui per mangiare. Ha frequentato quattro classi delle elementari con lunghe assenze per lavoro. Anche la sua casa è fatta di terra pressata e ha una veranda aperta affacciata sulle zolle aride che diventano poltiglia durante i monsoni, spesso senza luce, né acqua corrente o bagni. La sopravvivenza della sua gente, spiega il rappresentante di una Ong locale che ci accompagna, dipende dai contadini proprietari terrieri, i Jat in Rajasthan, o i Patel nel Gujarat, i Reddy in Andra, gente intraprendente che si è arricchita sfruttando le caste inferiori e offrendo servigi a quelle superiori.
Sudhir Katiyak si occupa da più i 15 anni del lavoro forzato minorile in diverse regioni dell’India per conto della Ong “Prayas”, e fu lui a scoprire per primo, appena all’inizio degli anni 2000, il fenomeno dei piccoli schiavi del cotone durante una ricerca sui flussi migratori tra Rajasthan e Gujarat. La vera manna dal cielo per i produttori di queste regioni — spiega — è stato l’arrivo del cotone transgenico, o B.T., prodotto dalla multinazionale Usa Monsanto e resistente ai parassiti, oltre che capace di riprodursi in maggiori quantità, ma con effetti collaterali in gran parte ancora sconosciuti. È un fenomeno degli ultimi dieci anni che ha paradossalmente richiesto ancora di più l’uso dei minori. L’impollinazione di queste piante ormai non avviene infatti secondo processi naturali, ma ha bisogno del lavoro dell’uomo, specialmente di piccole mani come quelle dei bambini, che possono infilare le punte delle dita nel fiore a prelevare il seme dal pistillo per sfregarlo contro la pianta femmina. La stagione degli innesti, tra agosto e settembre, è ormai prossima e si ripeterà la stessa storia in decine di migliaia di case, coi mediatori come il signor Vacharam disposti ad anticipare i soldi dell’ingaggio e già in cerca di nuovi bambini disponibili.
L’ultima volta che Vacharam lo ha assoldato per andare in un campo di cotone del Gujarat, Vinod si è ritrovato con altri 20 ragazzini e ragazzine tra i 10 e i 14 anni pressato a bordo di una jeep diretta oltre confine. «In poche ore abbiamo raggiunto il villaggio della piantagione. Ci hanno portato in una fattoria di Akoli, siamo stati messi tutti in una stessa stanza, e dal giorno dopo è cominciata la routine dei campi. Ci svegliavano prima delle quattro perché la pianta del maschio si apre al buio e quando arriva la luce non possiamo più prendere il seme per impollinare. Poi si lavorava fino alle 6, quasi sempre nel fango perché agosto è tempo di monsoni. Se lasciavamo indietro qualche fiore, ci menavano con le mani o con i bastoni di ferro ».
«Ma non tutti i padroni volevano che i caporali fossero crudeli con noi — spiega Vinod — e chi si comportava bene poteva alloggiare nella stanza con la televisione. Finito il lavoro dell’alba ci davano un tè, e poi alle 8 si ritornava nei campi fino a mezzogiorno. A quell’ora mangiavamo sempre lo stesso roti (un pane di frumento, ndr) con lo stesso sapore insipido e senza nient’altro, se non qualche volta pasta di curry e burro cagliato. Così anche la sera alle 8, dopo la fine del lavoro».
La prima volta che furono portati a impollinare, sia Vinod che Moahan e tutti gli altri erano eccitati del viaggio verso luoghi e genti sconosciute, quasi un processo iniziatico all’adolescenza, con altri coetanei del loro stesso villaggio, a dormire insieme lontano dalle famiglie, maschi e femmine senza distinzione, come si fa nelle tribù dei bhil e dei dalit, gli intoccabili, privi dei tabù dei loro coetanei di religione induista.
Ma col tempo e le stagioni, umiliati dai padroni che li pagavano 100 rupie, meno di due dollari al giorno, e sottraevano i soldi degli extra e delle medicine, hanno smesso di divertirsi: ora vanno solo per dovere, perché le famiglie hanno contratto un debito con i proprietari delle terre. Proibito rivendicare un’intera infanzia persa: «Anche se sai leggere e scrivere — ci dice Vinod — le alternative sono solo tra lavorare il cotone del campo o nella fabbrica».
Tra quanti hanno scelto la seconda opzione c’è un altro adolescente, Anil, una celebrità da quando la sua storia ha impietosito il cuore più sensibile di Madre India. Lo incontriamo in un villaggio ancora più vicino al confine del Gujarat e ancora più isolato, chiamato Bagora. Ci si arriva solo a piedi tra dune di sabbia color della ruggine, arbusti secchi e rare case di terra pressata. Racconta Anil che tre anni fa era andato a lavorare in fabbrica perché era stanco di svegliarsi prima dell’alba nei campi, delle punture degli insetti, di respirare il veleno dei pesticidi, con la paura dei morsi dei serpenti e la
stanchezza delle lunghe ore di sonno perduto. Ma non aveva nessuna idea dei pericoli non meno temibili di un’industria: sua madre era rimasta vedova, e si faceva la fame anche se due fratelli erano andati a fare i muratori ad Ahmedabad, la capitale del nuovo eldorado indiano.
Viso scuro e affilato, gli orecchini ai lobi come usa tra i bhil, una manica della camicia azzurra di scuola che penzola vuota, Anil non parla volentieri della sua disgrazia, anche se ha posto fine alla sua carriera di schiavo al prezzo della perdita di un braccio. Glielo ha tranciato il cilindro rotante della macchina che divide i grossi semi del cotone usato per l’olio dalla fibra bianca, destinata a diventare camicie e pantaloni, magari per un coetaneo occidentale del tutto ignaro del suo sacrificio. Negli ultimi mesi, solo in questo tratto di deserto attorno a Bagora, Nein Bhara e Lalji, ci sono stati quattro incidenti simili a quello di Anil.
Il suo è stato però un caso speciale, perché non è finito nel silenzio come gli altri. È successo che un infermiere dell’ospedale del Gujarat dove il padrone l’ha fatto ricoverare senza nemmeno informare la famiglia, mosso a compassione ha parlato del piccolo paziente tutto solo e senza un braccio agli attivisti sociali della Ong Prayas. Da quel giorno Sudhir ne ha preso a cuore le sorti e ha trovato per lui un collegio dove ora studia a una giornata di pullman dal suo villaggio.
«Tutti sanno benissimo del traffico di piccole braccia», ci spiega Sudhir mentre spulcia tra i quaderni scritti da Anil con la sinistra sotto al patio ombroso della sua casa. «Le autorità tenute a far rispettare le leggi lasciano correre per il beneficio delle famiglie e dei padroni. All’inizio neanche noi eravamo sicuri di fare bene a chiedere la fine di questo sfruttamento, perché i nostri ideali dei diritti umani da soli non aiutano a far sopravvivere interi clan nelle più avverse condizioni ambientali. Ma l’universo di abusi nel quale ci siamo pian piano addentrati era troppo esteso e doloroso per tacere».
Così, da un giorno all’altro, tutti i giornali e le tv si sono occupati di Anil, e sembrò che il Continente scoprisse d’un tratto l’esistenza dello sfruttamento dei minori nelle piantagioni e nelle fabbriche. Da allora il bambino, che ha oggi 15 anni, torna a casa dalla scuola solo di tanto in tanto e durante le vacanze. Ma ora il suo caso è stato già dimenticato e altri coetanei continuano a restare mutilati, compresi i più grandi e perfino gli anziani, che non godono di pensione e devono lavorare in fabbrica tra le 8 e le 12 ore al giorno.
Se da bambini si è incauti, da vecchi si è lenti, come racconta impietosamente la storia di Phulli, che incontriamo davanti a una casa lungo la provinciale che taglia in due il villaggio di Magra. Phulli ha solo 60 anni ma ne dimostra 80. Una vita spesa fin da bambina nei campi del cotone, a raccogliere fascine e farsi picchiare dal marito spesso ubriaco di liquore estratto dal mahua. Immobile su una branda, è depressa da quando una macchina le ha fratturato entrambe le gambe. Una ventata ha alzato il velo del suo saree che si è incastrato tra gli ingranaggi trascinandola contro le ruote dentate, e ora non potrà camminare per il resto dei suoi giorni.
L’unico aspetto positivo nell’inferno che la aspetta è che riceverà dei soldi dall’assicurazione della fabbrica di cotone del Gujarat dove lavorava da appena un giorno, chiamata Paradiso. Phulli, che non ha figli, vuole darli alla famiglia di una nipote di 12 anni alla quale è affezionata così da farla studiare. Il duro prezzo del riscatto per il destino altrimenti segnato di una nuova, piccola schiava del cotone.


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