L’analista israeliano Sergio Yahni: « L’obiettivo di Tel Aviv a Gaza è rafforzare Netanyahu »

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Men­tre Gaza vive le sue quo­ti­diane ore di ter­rore, a Tel Aviv ieri era la ten­sione poli­tica a farla da padrone in attesa della riu­nione not­turna del con­si­glio dei mini­stri. Israele uscirà vit­to­rioso dall’offensiva con­tro la Stri­scia? Un vin­ci­tore – almeno in parte – c’è. «È Ben­ja­min Neta­nyahu, una fenice che rina­sce dalle sue stesse ceneri», ci spiega l’analista e gior­na­li­sta israe­liano, Ser­gio Yahni.

Quali sono i fat­tori interni che hanno spinto all’operazione con­tro Gaza? Neta­nyahu subiva pres­sioni forti da par­titi come Casa Ebraica e fal­chi come Lieberman.

Uno degli obiet­tivi di un’offensiva pia­ni­fi­cata da tempo è la neces­sità di un raf­for­za­mento del pre­mier Neta­nyahu. L’asso nella manica del mago Bibi che, con una coa­li­zione di governo dif­fi­cil­mente gesti­bile, ha tro­vato il modo per annien­tare gli alleati-avversari. Sono mario­nette senza ren­der­sene conto. Pren­dete Lie­ber­man: ha lasciato il par­tito tan­dem Likud-Beitenu del pre­mier due giorni prima dell’offensiva. Ora la sua figura è irri­le­vante. È chiaro che Neta­nyahu non si è mai con­sul­tato con Lie­ber­man. Né con Ben­nett o gli altri par­titi nazio­na­li­sti: sono fuori dalla discus­sione. Il loro no alla pro­po­sta di tre­gua di ieri mat­tina è un no dovuto, ma non mette in peri­colo l’esecutivo. È un gioco del pre­mier e del suo mini­stro della Difesa, Ya’alon. Se in futuro si dovesse giun­gere ad una vera tre­gua che pena­lizzi Israele, il governo potrebbe cadere. Altri­menti no. Se parte l’offensiva via terra, saranno tutti costretti a soste­nere Neta­nyahu. Ormai l’opposizione a Bibi non esi­ste più, ha creato una crisi per uscire dalla sua.

Ovvia­mente la giu­sti­fi­ca­zione migliore è stato il caso dei tre coloni. Lo Shin Bet (i ser­vizi segreti interni, ndr), l’esercito e il governo hanno tro­vato la migliore delle oppor­tu­nità per distrug­gere Hamas in Cisgior­da­nia e il governo di unità nazio­nale con Fatah. Allo stesso tempo hanno messo in piedi una cam­pa­gna pro­pa­gan­di­stica per pro­vo­care un’escalation di vio­lenza den­tro la società israe­liana, con­tro i pale­sti­nesi in gene­rale e Hamas in par­ti­co­lare. Il modo migliore per dare sfogo a que­sta pen­tola a pres­sione di rab­bia era un nuovo attacco a Gaza. Quello che resterà alla fine dell’operazione è l’eccezionale incre­mento del tasso di raz­zi­smo nella società, pas­sato ad un livello supe­riore: ormai è istituzionalizzato.

All’esterno Israele aveva biso­gno di rom­pere l’unità Hamas-Fatah e chiu­dere nel modo più pulito pos­si­bile il nego­ziato. A ciò si aggiunge la comu­nità inter­na­zio­nale e la sorta di “iso­la­mento” subito negli ultimi mesi.

Israele è uscito dalla crisi inter­na­zio­nale che stava vivendo a causa del fal­li­mento dei nego­ziati di pace inven­tan­dosi una guerra con Hamas e costrin­gendo così Usa e Ue a soste­nerlo. Ma quello che viviamo è un momento estre­ma­mente peri­co­loso. Que­sto ces­sate il fuoco è un trucco e una trap­pola per Hamas. Se accetta la tre­gua senza garan­zie (nem­meno quella di una suc­ces­siva nego­zia­zione) ha perso; se la rigetta regala a Israele la legit­ti­mità di con­ti­nuare un’offensiva di terra, una legit­ti­mità dop­pia a livello inter­na­zio­nale e interno.

Que­sto è l’obiettivo israe­liano: distrug­gere Hamas, can­cel­larlo dall’equazione. Non si tratta di un fat­tore esterno, ma interno. Come diceva Kis­sin­ger, Israele non ha una poli­tica estera, ma solo interna. Qual è l’obiettivo? Creare un’entità pale­sti­nese (si badi bene, non uno Stato sovrano) che ammi­ni­stri la Cisgior­da­nia e un’entità che ammi­ni­stri la Stri­scia. Due entità total­mente sepa­rate. Per Israele esi­stono tre tipi di pale­sti­nesi: gli arabi resi­denti in Cisgior­da­nia, i gazawi e gli arabi cit­ta­dini israe­liani. Il discorso in sé è un pro­cesso quasi filo­so­fico, non nuovo, ma comin­ciato anni fa nei cir­coli intel­let­tuali: rom­pere l’identità unica del popolo pale­sti­nese in tre comu­nità sepa­rate e quindi gestibili.

Nel sistema poli­tico israe­liano nes­suno accetta l’idea di uno Stato pale­sti­nese sovrano, ma solo un’entità ammi­ni­stra­tiva. Si tratta di una que­stione nata dopo l’omicidio di Rabin, alla fine del 1995: da allora Tel Aviv punta alla crea­zione di pic­cole entità ammi­ni­stra­tive che da una parte gli tol­gano il peso dei costi dell’occupazione, ma che dall’altra non godano di alcun sovra­nità su risorse o con­fini. Per que­sto ha biso­gno di Fatah e di Abbas, ma deve can­cel­lare Hamas.

Sabato Tel Aviv è stata tea­tro di una vio­lenta aggres­sione con­tro la mani­fe­sta­zione orga­niz­zata dalle forze di sini­stra. È parte di quell’estremizzazione interna di cui par­lava prima?

A Tel Aviv la mani­fe­sta­zione è stata attac­cata dalla poli­zia e da gruppi che van­tano una sorta di gemel­lag­gio con i neo­na­zi­sti euro­pei. Un’assurdità. Ma a me viene da cri­ti­care la sini­stra stessa. E in par­ti­co­lare il par­tito comu­ni­sta, che in Israele è misto, for­mato sia da ebrei israe­liani che da pale­sti­nesi israe­liani. Per mere que­stioni stra­te­gi­che, il par­tito ha spac­cato una sini­stra già divisa. Nel caso della mani­fe­sta­zione di sabato, gli ebrei hanno deciso di ade­rire alla mani­fe­sta­zione di Tel Aviv con il par­tito mode­rato Meretz, i pale­sti­nesi a quella di Jaffa con il par­tito arabo Balad. I cosid­detti comu­ni­sti sape­vano che i “bian­chi” di Tel Aviv si sareb­bero rifiu­tati di mani­fe­stare a Jaffa, anche se di sini­stra o mode­rati. Così sono uscite fuori due mani­fe­sta­zioni sepa­rate che hanno lan­ciato un mes­sag­gio debo­lis­simo. A vin­cere, ancora una volta, è il mago Netanyahu.



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