IL PRIGIONIERO OBAMA

IL PRIGIONIERO OBAMA

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I COLLABORATORI più stretti di Barack Obama lo descrivono “esasperato” dai suoi colloqui telefonici con Benjamin Netanyahu. In quanto all’ultimo incontro tra il segretario di Stato John Kerry e il premier israeliano, gli aggettivi variano da “burrascoso” a “disastroso”. Se l’America è l’unico possibile arbitro nel conflitto di Gaza, la sua influenza su Israele è precipitata ai minimi storici.
E VICEVERSA : la fiducia di un’Amministrazione Usa verso una leadership israeliana non era mai finita così in basso.
Arrivato alla sua “quinta crisi mediorientale” — dopo Egitto, Libia, Siria e Iraq — Obama sconta anche questo accumularsi d’instabilità. A ridurre le chance di una mediazione di pace, c’è il fatto che i tradizionali alleati moderati dell’America sul fronte islamico — Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Qatar — sono sempre più divisi tra loro. L’avanzata del movimento jihadista Isis con i suoi progetti di grande califfato, le nuove carneficine tra sciiti e sunniti, contribuiscono a fragilizzare tutti i possibili punti d’appoggio per l’iniziativa americana su Gaza.
Perfino il pessimo rapporto con Netanyahu si collega in qualche modo con l’arco d’instabilità che ha intrappolato Nordafrica e Medio Oriente dalle primavere arabe in poi. Obama non ha un carattere umorale o rancoroso, eppure dopo Vladimir Putin l’unico leader con cui l’animosità politica tracima in antipatia personale è proprio Netanyahu. I motivi di risentimento non mancano: dai fatti di sostanza agli oltraggi nel galateo politico. Cominciando dai secondi, nessuno dimentica che Netanyahu venne a Washington a parlare al Congresso “contro” il presidente degli Stati Uniti; intervenne in piena campagna presidenziale (2012) con uno sfacciato appoggio al rivale repubblicano Mitt Romney. L’astio reciproco si nutre anche di queste ferite. Alla base c’era da parte di Netanyahu un attacco politico: non concepiva che Obama appoggiasse le rivolte antiautoritarie delle primavere arabe, se questo significava mollare un partner sicuro di Israele come Mubarak e magari spianare la strada al governo (temporaneo) dei Fratelli Musulmani amici di Hamas. Analisi identica a quella della destra Usa. In casa propria, Netanyahu ha ripetutamente sbeffeggiato i tentativi americani di fare avanzare un nuovo piano di pace, vanificandoli con la politica degli insediamenti nei territori occupati.
Tutto questo si traduce anche in un cambio di atmosfera e di equilibri interni negli Stati Uniti. Un tempo l’appoggio americano a Israele era ampiamente bipartisan, oggi è più squilibrato verso destra, con i repubblicani molto più schierati dei democratici (nel breve periodo questo non inficia i calcoli di Netanyahu, visto che i repubblicani potrebbero stravincere le legislative di novembre). Sui mass media Usa i resoconti da Gaza danno un risalto inedito alla sproporzione fra le vittime dei bombardamenti israeliani e quelle dei missili di Hamas (venti a uno, inclusi i militari). Edward Luce in un’analisi sul Financial Times mette in luce un’altra evoluzione, di tipo generazionale: l’appoggio all’azione di Israele resta maggioritario tra gli americani, ma crolla nella “generazione Millennio”, i giovani adulti che rappresentano il futuro, votano democratico, hanno contribuito in modo determinante alle due vittorie di Obama. Lo stesso Financial Times sottolinea il calo d’influenza dell’American Israel Public Affairs Committee, la storica organizzazione che promuove l’intesa fra i due paesi, sconfitta in due battaglie recenti al Congresso di Washington (sull’inasprimento delle sanzioni all’Iran, e sull’intervento militare in Siria).
Ai vertici della diplomazia Usa regge ancora un consenso di base sulle condizioni per una pacificazione a Gaza e in Cisgiordania: Israele deve accettare uno Stato palestinese sovrano; a loro volta i palestinesi con l’inclusione delle fazioni estreme come Hamas devono riconoscere il diritto d’Israele all’esistenza e alla sicurezza, quindi devono abbandonare la ricerca di una soluzione violenta. Ma è proprio per far accettare queste condizioni di base, che oggi manca il “capitale politico” da spendere sui due versanti. L’America non ha più l’influenza di una volta, su questa leadership israeliana. E il fronte dei paesi islamici moderati che dovrebbero piegare Hamas è traversato da tensioni interne: i rapporti si sono deteriorati tra il Cairo, Ankara, Riad. Dall’inizio delle primavere arabe la “piazza” è diventata un fattore di cui ogni autocrate della zona deve in qualche modo tener conto, e la “piazza” non è favorevole alle soluzioni di compromesso nella questione palestinese.
In quanto all’America, Obama è prigioniero di una profonda contraddizione interna: ha un’opinione pubblica attraversata da robuste correnti isolazioniste; i suoi cittadini vogliono un presidente che riporti a casa tutte le truppe (come sta facendo) e al tempo stesso conservi l’influenza di un superpoliziotto globale. «Molti cittadini — osserva Obama — sono preoccupati perché hanno la sensazione che il vecchio ordine mondiale non regge, ma le condizioni per un nuovo ordine ancora non si vedono». E come spesso accade, questo presidente è un analista di grande lucidità e visione, non altrettanto convincente quando passa all’azione.



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