Se i libri negati dietro le sbarre diventano l’ultima pena

Se i libri negati dietro le sbarre diventano l’ultima pena

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DOVETE andare in galera: abbracciate i vostri cari, mettete nel sacco spazzolino, biancheria di ricambio, e due libri — forse i due libri prima dello spazzolino? — un romanzo da rileggere, e un saggio recente, o forse un dizionario portatile. All’arrivo, vi lasciano lo spazzolino, vi tolgono i libri. Se eravate novellini, e credevate che davvero le arance fossero permesse, e anche i libri rilegati, dovrete rassegnarvi allo scempio delle copertine rigide strappate via, per regolamento — ragioni di sicurezza.
Ogni tanto si ricomincia, con la questione dei libri in cella: se siano una concessione, o un diritto. In Inghilterra è appena successo con la breve detenzione di un ex-deputato laburista ed ex-ministro, Denis MacShane, condannato per aver falsificato i rimborsi (risonanza enorme, cifra modesta in confronto alle nostre) cui furono confiscati i libri che si era portato dietro. Caso che ha fatto esplodere uno scandalo tuttora non sopito. Il ministro della giustizia, Chris Grayling, ha fatto sapere che il divieto di portarsi dietro libri o riceverli per pacco o dai parenti è una misura tesa a far sì che i detenuti li meritino: in sostanza, i libri devono essere un premio alla buona condotta. Per fortuna, un’insurrezione ha accolto la pretesa. Di spirito poetico dotata, la scrittrice Cathy Lette ha avvertito: «Lo impaleremo sui
nostri pennini».
ALTRI hanno commentato che condannare a morire di fame di lettura è indegno della Gran Bretagna. Da noi, Marcello Dell’Utri ha minacciato lo sciopero della fame per il divieto (ora caduto) a tenere in cella più di due volumi: «Per me i libri sono come l’acqua», ha detto.
I libri sono come l’acqua per tutti i carcerati, o come una zattera. La prigione è un naufragio e non è un caso che all’inizio d’estate le pagine di varietà ricomincino con la domanda: «Che libro vi portereste su un’isola deserta?», Che libro vi portereste in carcere. Magari uno di quelli che in carcere sono stati dettati o concepiti, Il Milione, o il Don Chisciotte , o l’impressionante antologia raccolta da Daria Galateria, “Scritti galeotti. Narratori in catene dal Settecento a oggi” (Sellerio: ne mancano pochi). Ma la tradizione grandiosa della scrittura in carcere non è nemmeno paragonabile alla tradizione inaccertabile della lettura in carcere. In Inghilterra, avendola detta grossa, i responsabili delle carceri hanno ripiegato sulle ragioni di sicurezza: i pacchi vanno controllati, e il personale è poco, e i fondi sono tagliati… Come le copertine rigide. Sciocchezze. Poche cose sono facili da controllare come i libri. Ma il tema scatenato dall’ottusità penitenziaria porta lontanissimo. In Brasile, Dilma Roussef (ex-detenuta) sperimentò due anni fa la concessione di 4 giorni di riduzione della pena per ogni libro letto — per un massimo di 12 libri, 48 giorni. In ambedue i casi, quello che riduce la lettura a un premio alla buona condotta e quello che considera buona condotta la lettura, c’è un malinteso: che leggere libri renda migliori, e contribuisca a risocializzare. È vero per la gran parte delle persone, dentro e anche fuori del carcere: ma può anche non esserlo. Quello che conta è che la lettura — e il suo reciproco, la scrittura — è un’attività ormai connaturata all’ homo sapiens sapiens, e lo è infinitamente di più dove è privato della libertà. I libri e i giornali sono, oltre che la radio e la tv, ciascuno a suo modo, il mondo surrogato che permette ai carcerati di tirare avanti.
In galera l’aria guadagna un senso diverso e calcolato: l’ora d’aria. Nemmeno l’aria che respiri ti rende migliore: semplicemente, ti impedisce di soffocare. Così la lettura. In ogni carcere italiano dovrebbe esserci una biblioteca: c’è nella maggioranza. Spesso è ancora povera, specialmente di libri e giornali adatti alla popolazione straniera. Spessissimo non accoglie i detenuti in modo che possano guardare i libri, sfogliarli, sceglierli. Molto si fa, da volontari e enti locali (che hanno per legge la responsabilità delle biblioteche carcerarie) scontrandosi con gli impedimenti e a volte i boicottaggi quotidiani della vita carceraria. Perfino regalare libri alle biblioteche carcerarie è un’impresa, fra passaggi burocratici e questioni di catalogo e spazio. I detenuti chiedono soprattutto libri sulle questioni ultime, dicono gli esperti: filosofia, religione. Può darsi, i letti a castello propiziano la metafisica. Cercano soprattutto storie d’amore, su cui vagare, e imparare a scrivere lettere d’amore.
La vecchia categoria degli “scrivani” ha questo grande privilegio, di fare da Cyrano di mille Rossane, e intanto imparare dagli altri, da quelli che non trovano le parole appropriate, che non sanno scrivere, le parole sorprendenti che loro non avrebbero immaginato. C’è un’ultima questione: per i liberi non solo la lettura dei libri è necessaria e naturale come l’aria e l’acqua, ma anche internet, e gli e-book, e il resto. Fino a quando penseremo che sia un lusso proibito per i detenuti, e che scrivere mail, per chi è autorizzato a scrivere e ricevere lettere senza censura, sia impensabile? I liberi si castigano spesso accontentandosi del mondo virtuale. I prigionieri sono mutilati anche di quello.



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