Dalla Svizzera al Botswana solo 11 Paesi senza guerra

Dalla Svizzera al Botswana solo 11 Paesi senza guerra

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NEW YORK. SOLO undici paesi al mondo possono davvero considerarsi “in pace”. In Europa, solo la Svizzera è completamente estranea a qualunque coinvolgimento nei conflitti che insanguinano il pianeta.
È LA conclusione del più accurato rapporto sulle guerre nel mondo, un esame di 162 nazioni compiuto dall’Institute for Economics and Peace.
Non solo Ucraina, Gaza, Iraq e Siria. Qualche volta la visibilità delle guerre viene imputata a una distorsione dei media, una sorta di «preferenza per le cattive notizie». Autorevoli studiosi propongono messaggi controcorrente: il mondo non è mai stato così sicuro e così prospero, è la tesi del celebre psicologo americano Steven Pinker, autore de Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia ( Mondadori). Prima di lui, la teoria della decrescita dei conflitti ha avuto autorevoli precedenti. Un secolo fa iniziava la prima guerra mondiale che fu definita «la guerra per terminare tutte le guerre ». Negli anni Cinquanta e Sessanta i fautori della deterrenza nucleare teorizzarono che l’equilibrio del terrore atomico avrebbe reso sempre meno frequenti i conflitti. E 25 anni fa con la caduta del Muro di Berlino si celebrò «la fine della storia», l’avvento di un unico modello politico-economico dominante (la democrazia capitalistica), quindi anche l’esaurimento delle cause strutturali dei conflitti.
Sta accadendo il contrario. Le carneficine di Verdun e Sedan non hanno impedito due decenni dopo Danzica, Dresda, l’Olocausto e Hiroshima. La guerra fredda ha coesistito con tanti conflitti “regionali”, non per questo poco cruenti. Il 1989 è stato seguito dall’11 settembre 2001. E in particolare dal 2007 ad oggi l’indice della pace globale ha ripreso ad arretrare paurosamente. Quell’anno — che coincide con l’esplosione della grande crisi economica — segna anzi una svolta negativa, rispetto a un trend di lenta riduzione delle guerre dopo il secondo conflitto mondiale. La lista Iep delle “oasi pacifiche”, oltre alla Svizzera include Giappone, Qatar, Mauritius, Uruguay, Cile, Botswana, Costa Rica, Vietnam, Panama e Brasile (ma anche su questo elenco bisogna fare precisazioni).
Perché non vi appaiono i paesi membri dell’Unione europea, che non sono sconvolti da conflitti armati? In un intervento sul quotidiano inglese The Independent, la direttrice dell’Institute for Economics and Peace (Iep), Camilla Schippa, spiega la ragione. Le classifiche misurano anche il coinvolgimento diretto o indiretto in guerre lontane dai propri confini. Il criterio che definisce la vera pace, quindi, è la non partecipazione «a qualsiasi controversia tra governi e territori, con il ricorso alle armi, che abbia fatto almeno 25 morti in un anno ». Stati membri della Nato che partecipino ad operazioni in Afghanistan, o anche a missioni d’interposizione sotto l’egida Onu, sono in qualche modo coinvolti nei conflitti. Inoltre l’Iep misura quella forma di partecipazione alla guerra che sono le vendite di armi. Da questo punto di vista perfino la Svizzera perde punti.
Tra le poche eccezioni veramente virtuose c’è il Costa Rica che ha abolito le forze armate. Tra i paesi in stato di guerra vengono inclusi ovviamente anche casi come la Corea del Nord: lì non c’è una guerra guerreggiata, ma l’intera nazione vive sotto il terrore di un conflitto imminente, che serve a giustificare una delle dittature più feroci della storia. Il rapporto dell’Iep non sottovaluta quelle tensioni interne — sociali, economiche, religiose, ideologiche — che possono sfociare in guerre civili o quantomeno in violenze di piazza.
La stessa lista degli 11 paesi in pace totale, per quanto striminzita, è piena di candidati alla retrocessione. Il Brasile, come si è visto nelle violente proteste prima dei Mondiali di calcio,
è un paese dove le diseguaglianze sociali e la povertà delle favelas può incubare nuovi periodi di instabilità e di scontri interni. Non sono guerre tra nazioni, ma rientrano comunque in un barometro della violenza di cui bisogna tenere conto. Sull’ Independent Camilla Schippa spiega che l’indice Iep è ancora fermo agli eventi dell’anno scorso, quindi non include Gaza, l’annessione della Crimea, la crisi in Ucraina, l’avanzata della fazione sunnita Is in Iraq e il massacro della minoranza Yazidi. Nella sua analisi, a spiegare il peggioramento dal 2007 a oggi hanno contribuito sia lo shock economico globale, sia l’esito delle primavere arabe.
E i conflitti più gravi del momento non sono per forza quelli che gli europei seguono da vicino. Meno visibili sui nostri schermi radar ma egualmente distruttive sono le ondate di violenza in Sudan e Congo. Sarà possibile tornare a invertire la tendenza? Invece di inseguire improbabili scenari macro-geostrategici come quello che disegnò Francis Fukuyama ne La fine della storia , un filone di ricerca più recente è quello guidato da John Horgan, direttore del Center of Science Writings allo Stevens Institute of Technology. Nel suo recente saggio The End of War , Horgan parte dall’assunto che la guerra, a differenza del cancro, non è un fenomeno naturale ma un prodotto degli uomini. Non ha una necessità bio-genetica. E se il dispiegamento di risorse economiche e scientifiche è riuscito negli anni a fare arretrare, almeno relativamente, la potenza distruttiva del cancro, un approccio altrettanto oggettivo e scientifico è quello che Horgan propone per far indietreggiare, un passo alla volta, l’indice dei conflitti armati.



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