La doppia solitudine dei migranti

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IL SEMESTRE europeo dell’Italia non deve essere mai iniziato. Il turno del nostro Paese alla presidenza dell’Unione è probabilmente stato saltato.

SIVEDE che i Greci hanno passato il testimone direttamente alla Lettonia, approfittando di una nostra qualche distrazione, senza darci il tempo di reagire. Fatto sta che il problema che ci tocca più da vicino e, al contempo, quello su cui l’Europa può fare di più nell’immediato, quello degli sbarchi dei disperati in Sicilia, sembra essere stato derubricato dall’agenda dell’Unione. Si procede solo con i reciproci scambi d’accuse quando non si arriva agli insulti a mezzo stampa. Eppure da inizio luglio la contabilità dei morti nell’attraversamento del Canale di Sicilia ha subito una ulteriore e brusca accelerazione. Siamo passati da due a quasi tre morti al giorno, secondo la macabra contabilità di Fortress Europe. C’è ormai un villaggio di 7.000 anime sepolto in fondo al mare, ricostruendo quanto accaduto nei naufragi degli ultimi 10 anni di cui si ha notizia.
La richiesta dell’Italia all’Unione continua ad essere principalmente quella di condividere i costi dell’operazione Mare Nostrum, istituita nell’ottobre 2013 all’indomani della strage dell’isola dei Conigli a Lampedusa. Questa operazione avrebbe dovuto rendere il Mediterraneo un mare sicuro, impiegando quasi mille militari, una nave anfibia, due fregate, due pattugliatori, aerei ed elicotteri oltre che potenziando la rete radar costiera, per individuare e soccorrere imbarcazioni in difficoltà in mare aperto o addirittura in prossimità delle coste africane.
L’obiettivo conclamato di Mare Nostrum era quello di minimizzare, se non azzerare, il numero di morti in mare. Se questo era anche il vero obiettivo dell’operazione, è chiaro che ha fallito. Come previsto su queste colonne, Mare Nostrum ha fatto «moltiplicare il numero di persone che si mettono in mare su imbarcazioni di fortuna con il rischio, alla fine, di aumentare il numero dei morti anziché ridurlo ». Gli scafisti sanno infatti che, messa in acqua un’imbarcazione a rischio, il soccorso è molto più probabile di prima. Il mare sarà più sicuro, ma è anche più affollato e non sempre purtroppo si riesce a prestare i soccorsi col tempismo che sarebbe necessario perché il monitoraggio, per quanto accurato, non riesce a identificare piccole imbarcazioni alla deriva, specie quando il mare è agitato. Per queste ragioni un finanziamento più equo di Mare Nostrum non risolve il problema delle stragi del Mediterraneo, anzi rischia addirittura di aggravarlo.
L’operazione serve, questo sì, ad aumentare il flusso di chi può esercitare il diritto d’asilo, una volta sopravvissuto all’attraversamento. È questo il vero obiettivo che ci si propone? Se sì, è opportuno ammetterlo e capire che la vera posta in gioco non è certo quella di una ripartizione più equa dei costi dei pattugliamenti tra gli Stati Membri. Ciò che, al di là della retorica, preoccupa di più gli altri Paesi è la condivisione di un flusso di rifugiati destinato ad aumentare fortemente in virtù di queste operazioni ai confini. Non è un caso il fatto che la Germania accusi l’Italia di violare le norme Ue, che impongono di procedere immediatamente all’identificazione dello straniero sbarcato, con conseguente responsabilità per l’Italia dell’esame della domanda di asilo. La ritardata identificazione (con rilevamento delle impronte) degli stranieri sbarcati può servire a spingere una parte dei rifugiati verso il nord Europa perché il mancato riconoscimento
immediato dello statuto di rifugiato non impone al Paese di arrivo di accogliere queste persone.
Se mai il semestre italiano dell’Unione inizierà davvero, non potrà che aprirsi con un’agenda di incontri volti a garantire lo stato di protezione temporanea per i teatri di guerra ai confini dell’Unione. Purtroppo non siamo i soli ad essere geograficamente vicini a un’area di conflitto, dove si consumano veri e propri genocidi. Possiamo perciò trovare importanti alleati in questa battaglia, magari rinunciando a pretese solo di facciata. In ogni caso, bisogna essere i primi ad accettare il principio del burden sharing a tutti i livelli, non solo riguardo ai costi dei pattugliamenti. Ad esempio, se vogliamo permettere la libera circolazione all’interno della Ue di quanti abbiano ottenuto il riconoscimento del diritto alla protezione in un qualsiasi Stato membro, bisogna esser pronti a condividere il costo di un’assistenza sociale di base, garantita su tutto il territorio dell’Unione, per tutta la fase in cui lo straniero non è autosufficiente.


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