Gaza, la tregua nella guerra tra talpe umane e hi-tech

Gaza, la tregua nella guerra tra talpe umane e hi-tech

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ISRAELE SI RITIRA DALLA STRISCIA, 72 ORE DI STOP
GERUSALEMME. LA STORIA mediorientale lo ricorderà come il conflitto dei tunnel. E perché non delle talpe umane contro l’high- tech? Nell’annunciare la tregua in vigore in queste ore, i portavoce militari israeliani hanno detto che di tunnel Tsahal ne ha distrutti 32.
MA FORSE le disperate, tenaci talpe umane ne hanno scavati molti di più o si apprestano a scavarne altri. Gli abitanti israeliani delle zone limitrofe a Gaza non si fidano. Hanno scoperto che sotto terra stavano per nascere labirinti, con luce elettrica e perfino con piste percorribili da automezzi. Per loro i soldati se ne sono andati da Gaza troppo presto. Dovevano frugare più a lungo il terreno. «I palestinesi potrebbero spuntare ancora dal
pavimento della camera da letto».
Dai tempi preistorici gli uomini hanno tracciato gallerie sotterranee per difendersi, per evadere, per attaccare. È un’antica arte della guerra riesumata di recente dai ribelli di vario tipo in Afghanistan per sfuggire agli occupanti prima sovietici e poi americani. Negli anni precedenti i vietnamiti e più ancora i laoziani furono maestri. Quella tattica rudimentale ha sorpreso in questi giorni anche Israele, Paese che eccelle appunto nell’high-tech: sul piano civile, certo, ma anche su quello militare: l’Iron Dome (la cupola di ferro) ha provvidenzialmente fatto esplodere in cielo i razzi di Hamas destinati a compiere stragi a Tel Aviv, a Haifa, a Gerusalemme. I razzi erano più vulnerabili delle talpe. Mentre i tecnici di Tsahal difendevano Israele nel cielo, quelli di Gaza lo minacciavano avanzando sotto terra. Il 16 giugno, dopo la scoperta di un tunnel, in prossimità del kibbutz Sufa, al nono giorno dall’inizio del conflitto, il governo ha deciso di investire Gaza con i mezzi blindati e la fanteria. Bisognava scovare e distruggere tutte le gallerie. Se ne conosceva da tempo l’esistenza ma che potessero sbucare sul serio in Israele ha creato angoscia e ha spinto ad allargare l’operazione militare. È allora cominciata la caccia ai palestinesi interrati. Quando un esercito tradizionale ed efficiente come quello israeliano si scontra a una forza non convenzionale si parla di conflitto asimmetrico. In quello di Gaza tra i contendenti scorrono millenni. Quelli che dividono gli scavatori di caverne e i cultori d’elettronica.
Si può vincere una battaglia e perdere la guerra. Per sapere la vera conclusione di uno scontro ci vuole tempo e, a Gaza e attorno a Gaza, dove si è attestata Tsahal appena uscita da quel lembo di Palestina, le armi tacciono per una tregua ben lontana dal prefigurare una pace imminente. Le cifre sono pesanti e ambigue: quasi 2mila morti palestinesi, di cui 900 militanti di
Hamas e della Jihad islamica, stando al bilancio di Tsahal, e 67 israeliani, dei quali tre civili. Il cospicuo numero di morti palestinesi non significa tuttavia la vittoria degli israeliani. Indica la loro superiorità militare, evidente ma non sufficiente per annientare Hamas e la Jihad islamica. Tanto è vero che in queste ore di tregua, dopo avere rifiutato, Israele dovrebbe incontrare e trattare (non si sa quando) con gli irriducibili nemici di Gaza, ai quali dovrà pur fare qualche concessione finora negata, se vuol concludere qualcosa. Con Hamas e la Jihad islamica al Cairo ci sono i moderati, non sempre ascoltati, rappresentanti dell’Autorità
palestinese di Ramallah forse in grado di dare garanzie o calmare gli animi.
Benjamin Netanyahu ha saggiamente accettato la tregua per motivi umanitari e al tempo stesso per trattare, ma soprattutto al fine di arginare le critiche internazionali e di salvare l’immagine di Israele
che peggiorava giorno dopo giorno. Secondo una classifica sull’influenza dei paesi nel mondo (pubblicata dall’ultimo Economist , pag. 179) Israele è appena sotto la Russia, e appena prima della Corea del Nord, del Pakistan e dell’Iran. Il massacro di Gaza non deve avere mutato la classifica. Le manifestazioni nei Paesi europei, ai quali degli imbecilli hanno dato toni antisemiti, hanno ferito o rinchiuso ancor più in se stessa la società israeliana, orgogliosa e ossessionata dalla sicurezza. Un intellettuale ebreo, ma non sionista, è arrivato a pensare, nonostante cercassi di dissuaderlo, che è come se la carta dell’Olocau-
sto, a lungo utile per giustificare gli eccessi di Israele, fosse scaduta. Teneva soprattutto in conto il crescente numero dei critici negli Stati Uniti dove l’opinione pubblica è di solito la più favorevole allo Stato ebraico.
Le vittime palestinesi, in gran parte civili, non pesa dunque in favore di una vittoria militare. È il risultato di una superreazione che non suscita simpatia. Che lascia perplessi. Che non può avere facili giustificazioni. Nelle crisi periodiche Israele mostra le sue contraddizioni. Il peggiore lato di se stesso. Al suo interno rispetta gli essenziali principi di una democrazia, e in questo è un’eccezione nella regione. Ma occupa illegalmente quello che dovrebbe essere uno Stato indipendente, la Palestina, e priva i suoi abitanti dei diritti civili e politici. Con gli anni, anzi i decenni, l’odio è diventato un sentimento reciproco.
Le opinioni pubbliche severe con Israele non hanno influenzato i governi occidentali. La voce grossa del presidente americano al telefono con il primo ministro israeliano è stata esagerata dai media e comunque non ha impedito un supplemento di aiuti economici a Gerusalemme. I preziosi interventi della “cupola di ferro” contro i razzi di Hamas, e ne sono stati necessari tanti, costano 50mila dollari l’uno. Gli europei si sono limitati agli appelli alla moderazione. E sono stati quasi in armonia con quelli dei grandi Paesi arabi. In particolare dell’Egitto, dell’Arabia Saudita e degli Emirati del Golfo. Tutti tenaci avversari di Hamas, perché nemici dei Fratelli
musulmani, con i quali il movimento terrorista di Gaza è imparentato. Il maggior alleato di Israele in questa crisi è stato l’Egitto, il quale ha tuttavia svolto il suo tradizionale ruolo di mediatore. La visita di Matteo Renzi al Cairo è stato una giusta mossa in favore di una soluzione pacifica, ma è stata compiuta in una capitale in cui un anno fa ci sono stati massacri non inferiori a quello di Gaza. Non si scelgono sempre gli interlocutori.
Il conflitto israelo-palestinese oggi non è più il centro strategico di un tempo. Conserva però un’importanza politica e simbolica. La sua fine chiuderebbe un’inesauribile serie di crisi violente e repressioni. Calmerebbe i risentimenti della masse arabe per quella che considerano un’ingiustizia storica di stampo occidentale. Quel che sta cambiando in Medio Oriente è la geografia della regione disegnata dagli occidentali (inglesi e francesi) alla fine dell’Impero ottomano nel 1918. Si profilano nuove nazioni, il Kurdistan, se ne disgregano altro, la Siria e l’Iraq. E Israele non è più isolato come un tempo nella regione: ha l’Egitto come alleato, l’Arabia Saudita come partner senza rapporti diplomatici e quasi tutti gli Emirati del Golfo come clienti. Per tutti questi Paesi a maggioranza sunnita, come per Israele, il vero nemico è l’Iran sciita, e i suoi protetti. Con Israele hanno un altro comune nemico: il jihadismo, l’estremismo islamico. Di cui Hamas, classificata movimento terrorista, fa parte. Ed è Gaza, vale a dire Hamas, ad essere adesso isolata. È isolata e senza i quattrini per pagare i suoi funzionari. Per vincere la guerra non ancora conclusa basterebbe togliere il blocco che imprigiona i quasi due milioni di abitanti della Striscia, ridotta a una penitenziario a cielo aperto. Il moderato Abu Mazen, il capo della svalutata Autorità palestinese di Ramallah, dovrebbe governare Gaza e infine togliere l’etichetta di terrorista a Hamas. E poi avviare i finora impossibili negoziati con Israele, per la convivenza di due stati sovrani. Ma non si elimina l’odio, cosi, in due righe, tra gli scavatori di tunnel e i detentori dell’high-tech. Ci vuole tempo. Tra loro, per adesso, ci sono millenni.



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