Gli Usa fermano il blitz a terra. Al Maliki lascia

by redazione | 15 Agosto 2014 9:58

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NEW YORK . «Abbiamo rotto l’assedio degli jihadisti attorno al monte Sinjar e abbiamo salvato molte vite innocenti». A una settimana dall’inizio del nuovo coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Iraq, Barack Obama si è voluto congratulare con il Pentagono per il successo delle prime operazioni: «Non potrei esserne più orgoglioso», ha detto. E ha insistito sul proseguimento a tempo indeterminato dei raid aerei contro l’Is. Poco dopo le parole del presidente americano è arrivata da Bagdad la notizia delle dimissioni di Nuri al-Maliki.
È stato lo stesso premier iracheno ad annunciarle ieri notte in televisione, dopo aver resistito a lungo alle pressioni internazionali e aver persino minacciato di ricorrere alla forza per rimanere al potere. Si apre così la strada alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale guidato da Haider al-Abadi, che promette un coinvolgimento dei sunniti, che finora si sentivano esclusi da ogni decisione e accusavano lo sciita al-Maliki di settarismo. Il cambio della guardia a Bagdad segna la prima transizione pacifica del potere in Iraq e permette alla Casa Bianca — che la considerava una condizione irrinunciabile — di impegnarsi con più credibilità dell’azione anti-Is.
Obama ha deciso di parlare dell’Iraq dopo il completamento della missione di 24 ore di una ventina di marines e civili al monte Sinjar, dove si erano rifugiati migliaia di yazidi in fuga dagli jihadisti. È stata proprio la paura di una strage di profughi ad accelerare l’intervento americano. In pochi giorni — ha ricordato ieri
il presidente — il Pentagono ha paracadutato 114mila razioni alimentari e 140mila litri d’acqua. Si temeva che ci fosse bisogno, per mettere in salvo gli yazidi, di un maxi ponte-aereo o della creazione di un corridoio da difendere con forze di terra dagli attacchi dei miliziani. Ma la missione del team americano ha scoperto che il numero dei profughi si è ridotto a 4-5mila: metà di loro intende restare lì, perché sono pastori, mentre l’altra metà può essere evacuata come si è fatto finora, cioè di notte, alla spicciolata, grazie anche all’azione dei raid aerei che hanno distrutto le postazioni dell’Is. Risultato: la missione sul monte è praticamente conclusa.
In compenso, ha ammesso Obama, la situazione rimane «molto grave» in altre parti dell’Iraq e, con il contributo di altri partner internazionali, gli Stati Uniti continueranno a sostenere gli sforzi degli iracheni con raid, forniture militari e aiuti umanitari. L’obiettivo del presidente è duplice: da un lato contrastare l’avanzata dell’Is che rischia di cambiare gli assetti geopolitici nel Medio Oriente; dall’altro non impelagarsi in quella che il Wall Street Journal chiama già la «terza guerra irachena».
Le cifre fornite dall’Onu confermano l’aggravarsi della situazione umanitaria: secondo l’alto commissariato per i rifugiati, 400mila iracheni sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni dopo lo sconfinamento dalla Siria dei miliziani dell’Is. I quali continuano ad ammassare truppe vicino a Qara Tappa, avanzano a ovest di Kirkuk, cercano di aprire un nuovo fronte contro i peshmerga curdi e puntano sulla capitale. Proprio ieri Ahmed Khalaf al Dulaimi, governatore moderato della provincia sunnita di Anbon, la stessa di Falluja, teatro a suo tempo della battaglia più sanguinosa delle forze americane, ha chiesto e ottenuto l’aiuto del Pentagono per contrastare l’avanzata degli jihadisti.
L’Italia si muove intanto soprattutto sul piano diplomatico e umanitario. Domani, come hanno annunciato il ministro degli Esteri Federica Mogherini e la sua collega alla Difesa Roberta Pinotti, partirà il ponte-aereo per
soccorrere le comunità cristiane e yazide. Sono previsti sei voli con un C130J per trasportare nel Nord dell’Iraq 36mila litri di acqua, 14 tonnellate di biscotti, 200 tende da campo e 400 sacchi a pelo, che ora si trovano nel deposito italiano nella base a Dubai del Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu. «L’auspicio — hanno anche detto i due ministri Mogherini e Pinotti — è che dal consiglio Affari esteri di venerdì a Bruxelles esca la decisione di un’azione forte, condivisa e congiunta di tutta l’Unione europea».

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