Iraq, la svolta di Obama i marines sul Monte Sinjar per salvare i profughi yazidi

Iraq, la svolta di Obama i marines sul Monte Sinjar per salvare i profughi yazidi

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DOHUK (KURDISTAN IRACHENO) . Tutto è cominciato dopo il tramonto. Con un velivolo speciale a decollo verticale, il V-22 Osprey, oltre cento agenti delle forze speciali statunitensi sono sbarcati tra le gole delle montagne di Sinjar per portare in salvo i ventimila civili yazidi minacciati dai jihadisti. A duecento chilometri da lì, durante tutto il giorno i profughi sfuggiti da quell’inferno avevano tenuto gli occhi fissi il cielo nella speranza di scorgere la sagoma di un elicottero amico o il puntino luminoso di un caccia americano diretto a salvare i famigliari lasciati in montagna. Anche qui, tra le tende del campo di Dohuk, era infatti corsa voce di un imminente intervento militare statunitense, via aria e via terra, per evacuare le persone ancora intrappolate sulle alture che sovrastano Sinjar. «La decisione è stata presa, e l’operazione di salvataggio dovrebbe scattare nelle prossime ore», ci ha detto al telefono una fonte vicina al comando militare statunitense di Erbil, capitale della provincia autonoma del Kurdistan iracheno. La sola opzione per evitare il massacro degli yazidi era proprio un intervento sul terreno, il che mette le truppe americane a confronto diretto con i guerriglieri dello Stato islamico quasi tre anni dopo il ritiro degli ultimi marines dal Paese. E gli americani l’hanno adottata.
Eppure, a Washington, il consigliere aggiunto alla Sicurezza nazionale, Ben Rhodes, aveva dichiarato che il presidente Barack Obama esclude di utilizzare forze di terra per combattere le bande islamiste. Rhodes ha anche detto che ieri gli aerei americani hanno lanciato sette raid per poter fornire viveri e medicine agli yazidi, e ha poi insistito sul fatto che gli Stati Uniti stanno considerando di portare in salvo i civili iracheni, con corridoi sicuri e ponti aerei. Quanto al premier inglese David Cameron, rientrato in tutta fretta a Londra per partecipare a una riunione del comitato d’emergenza Cobra, ha detto «che è in corso un piano internazionale per evacuare gli yazidi». Anche lui consapevole che il lancio di aiuti umanitari non basta più.
Ad accelerare i tempi è stato certamente l’appello lanciato ieri dagli esperti dell’Onu per i diritti umani alla comunità internazionale affinché si agisca con urgenza per impedire «un genocidio potenziale» da parte dello Stato Islamico. Ma a far muovere i lenti ingranaggi delle potenze occidentali è stata forse la notizia che il principale tempio degli yazidi, quello di Lalish, 60 chilometri a nord di Mosul, è stato distrutto con l’esplosivo dai jihadisti. A Lalish è sepolto il mistico e santo Sheikh Adi ibn Musafir, e al suo mausoleo tutti gli yazidi devono compiere un pellegrinaggio almeno una volta nella vita. Il tempio è stato fatto saltare com’è accaduto in queste settimane ad altri mausolei nella regione: quello del profeta Giona o la mitica tomba di Set, figlio di Adamo ed Eva e progenitore dell’Umanità. C’è chi evoca il Ruanda, per descrivere la violenza del fanatismo islamista contro quest’antica minoranza. Con tutte le differenze del caso, il paragone è tutt’altro che retorico.
Intanto, anche ieri è proseguito il lungo esodo degli yazidi verso la libertà, in gruppi più o meno nutriti, impolverati ed esausti come maratoneti alla fine di una fine corsa. In un paio d’ore, lungo la strada che dal confine siriano porta a Dohuk, nel nord del Turkmenistan, ne abbiamo contati almeno trecento. Camminavano in fila indiana, sul ciglio della carreggiata, in silenzio e con il passo pesante. «Le persone che abbiamo lasciato in montagna sono quelle che non hanno la forza di affrontare il durissimo viaggio che ci ha portati qui», dice Jalal, un contadino di un paesino vicino a Sinjar, che ha percorso l’intero tragitto con in braccio il figlioletto
malato. La lunga catena montagnosa che sovrasta Sinjar, dove dodici giorni fa si è rifugiata la sua gente, è già diventata la tomba di molti.
Un rappresentante delle Nazioni Unite in Iraq che tra quelle montagne ha viaggiato quando erano ancora controllate dai peshmerga curdi, le descrive come piene di crepacci e di grotte, e quasi prive di sorgenti. Dice: «Per liberare le quindicimila persone che vi sono ancora intrappolate, e che stanno morendo come mosche, si potrebbe procedere con gli elicotteri. Ma abbiamo calcolato di non poterne evacuare più di 800 al giorno. Ci vorrebbero almeno due settimane per portare a termine l’operazione. Altrimenti, bisogna intervenire anche via terra. Ma in questo caso servirebbe una protezione militare». Tra gli yazidi intrappolati, molti sono stati raggiunti dagli islamisti, i quali difficilmente permetteranno l’evacuazione, sia pure eli-trasportata, senza cercare di ostacolarla. E’ dunque difficile concepire un intervento umanitario senza la scorta di qualche agente dei corpi speciale, armato fino ai denti. Non fosse altro per difendere gli elicotteri.



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