L’espropriazione in nome della legge

by redazione | 28 Agosto 2014 19:30

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Il neo­li­be­ra­li­smo con­tem­po­ra­neo è un grande con­su­ma­tore di libertà, ricor­dava Michel Fou­cault durante quei corsi che, in presa diretta, pro­va­vano a capire cosa stava acca­dendo sul finire degli anni Set­tanta, quando la crisi del wel­fare state comin­ciava ad essere gestita in modo aggres­sivo da nuovi pro­ta­go­ni­sti. Con­su­mare libertà signi­fica evi­den­te­mente nutrir­sene per il pro­prio fun­zio­na­mento: ma, allo stesso tempo, con­trol­larla e gover­narla con­ti­nua­mente, lascian­done ben poca. Nel suo recente «Senza pro­prietà non c’è libertà» (Falso!), uscito per la col­lana Idòla di Laterza (pp. 78, euro 9), Ugo Mat­tei sce­glie come obiet­tivo pole­mico il dispo­si­tivo prin­ci­pale attra­verso cui il libe­ra­li­smo ha reso «con­su­ma­bile» la libertà: la costru­zione sto­rica di un nesso, tanto stretto quanto men­zo­gnero, tra libertà e pro­prietà. Mat­tei, coi toni mar­tel­lanti del pam­phlet, mostra come, al con­tra­rio, la pro­prietà sia sem­pre ser­vita a rimet­tere ordine con­tro le ten­ta­zioni di una libertà ecce­dente e a distrug­gere le pos­si­bi­lità di una libertà in comune.

La genesi della sovrap­po­si­zione tra libertà e pro­prietà è facil­mente rin­trac­cia­bile nel costi­tu­zio­na­li­smo libe­rale «clas­sico». Lo pro­cla­merà sir Wil­liam Black­stone a chiare let­tere nel tardo Set­te­cento: la difesa della libertà coin­cide senza scarti con la difesa della pro­prietà pri­vata. Senza pro­prietà, che è «domi­nio dispo­tico» sulle cose, si cadrebbe ine­vi­ta­bil­mente sotto il domi­nio degli altri.

La legge del potere

Era stato John Locke, un secolo prima, a trac­ciare le linee fon­da­men­tali di que­sto modello. Prima mossa: la pro­prietà è la vera garan­zia della libertà, da cui discende che il vero sog­getto libero è quello pro­prie­ta­rio. Attorno alla pro­prietà si costrui­sce, anzi, la stessa strut­tura del sog­getto. Il sog­getto giu­ri­dico è libero in quanto pro­prie­ta­rio della pro­pria per­sona e, prima ancora, del pro­prio lavoro. In secondo luogo, il sovrano è il garante della libertà/proprietà. Lo Stato è uno stru­mento fina­liz­zato alla tutela del sog­getto pro­prie­ta­rio: di qui l’asimmetria sto­rica, for­te­mente sot­to­li­neata da Mat­tei, tra la forte difesa della pro­prietà pri­vata nei con­fronti del pub­blico e l’assenza di ogni rime­dio quando invece è il pub­blico stesso a voler pri­va­tiz­zare. Terzo e fon­da­men­tale momento: prima ancora della distin­zione tra pub­blico e pri­vato, tra sovrano e sog­getto, inter­viene un atto di espro­pria­zione, di rot­tura del comune, costi­tu­tivo di quella stessa distin­zione. In altri ter­mini: pro­prietà e sovra­nità, lungi dall’opporsi l’una all’altra, sono due aspetti della stessa forza appro­pria­tiva, della mar­xiana accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria.
Sono i due aspetti, per­fet­ta­mente sim­me­trici, della pro­prietà pri­vante, di cui Mat­tei segue le tracce: il primo è quello appro­pria­tivo, il secondo la capa­cità di pro­durre e for­giare il sog­getto pro­prie­ta­rio. Al di là dei modi attra­verso i quali il diritto ha sem­pre pro­vato a nor­ma­ti­viz­zare e ad addol­cire la sua vio­lenza, l’origine della pro­prietà richiama comun­que il sac­cheg­gio, il pre­mio pro­messo ai sol­dati per la con­qui­sta. Mat­tei pre­senta alcuni foto­grammi molto vividi di quella che defi­ni­sce una tas­so­no­mia geno­cida: dalla pro­prietà fon­dia­ria indi­vi­duale inglese, la free tenure signi­fi­ca­ti­va­mente fatta risa­lire a Guglielmo il Con­qui­sta­tore, alla con­qui­sta delle Ame­ri­che, quando, ricorda Mat­tei, sulla Santa Maria venne imbar­cato un notaio, pronto a cer­ti­fi­care l’avvenuto acqui­sto a titolo ori­gi­na­rio; sino alla scena delle enclo­su­res, quando Locke, segre­ta­rio per­so­nale di un grande pro­prie­ta­rio ter­riero, san­ti­fica giu­ri­di­ca­mente l’appropriazione delle terre.

Dopo il saccheggio

In modo molto appas­sio­nato, Mat­tei ci ricorda anche come tutta que­sta sto­ria sia stata can­cel­lata dall’insegnamento uni­ver­si­ta­rio main­stream del diritto, com­plice la pro­fes­sio­na­liz­za­zione spinta delle facoltà di giu­ri­spru­denza.
Accanto all’origine appro­pria­tiva e vio­lenta, la pro­prietà pri­vante però ha anche l’aspetto, appa­ren­te­mente più soft, della costru­zione del sog­getto pro­prie­ta­rio: è pro­du­zione di sog­get­ti­vità, non solo sac­cheg­gio e con­qui­sta. Ma anche que­sta seconda fac­cia mostra quanto sia fal­lace il bino­mio proprietà/libertà: il rap­porto con la libertà è molto pro­ble­ma­tico, infatti, non solo per gli esclusi e gli spos­ses­sati, ma per­sino per i pro­prie­tari stessi. La pro­prietà pro­duce assog­get­ta­mento per lo stesso pro­prie­ta­rio: Mat­tei ricorda a buona ragione come la pro­messa del tutti pro­prie­tari della pro­pria casa abbia fun­zio­nato, all’inizio della crisi, come potente spinta all’indebitamento. Anche qui, non c’è nes­sun «pub­blico» più o meno «buono» che abbia fun­zio­nato da pro­te­zione con­tro i mec­ca­ni­smi di spos­ses­sa­mento: sem­mai invece è pro­prio «la sim­biosi mutua­li­stica tra Stato e pro­prietà pri­vata», scrive Mat­tei, a ripro­durne con­ti­nua­mente le con­di­zioni.
Oggi che la pro­prietà si pre­senta con il suo volto estrat­tivo al di fuori di qual­siasi media­zione wel­fa­ri­stica, il con­fronto si spo­sta neces­sa­ria­mente sul ter­reno poli­tico costi­tuente: è evi­dente, e Mat­tei lo fa emer­gere in pieno, che ria­prire il discorso dei beni comuni, degli usi, della riap­pro­pria­zione, è pos­si­bile solo attra­verso isti­tu­zioni con capa­cità gene­ra­tive che si pon­gano oltre quella pola­rità pubblico/privato che ha segnato la sto­ria del costi­tu­zio­na­li­smo. Ter­reno costi­tuente, ci sem­bra, non può qui che signi­fi­care un pro­cesso di rot­tura di quella pola­rità, e non sem­pli­ce­mente uno spa­zio «terzo», più o meno equi­di­stante da pub­blico e pri­vato. Mat­tei parla a que­sto pro­po­sito di una pro­prietà gene­ra­tiva, sot­to­li­neando però con forza che si tratta dell’opposto della pro­prietà quale la cono­sciamo: da parte nostra, lasce­remmo cadere senza nes­sun rim­pianto anche il nome, se non altro per amor di puli­zia con­cet­tuale. Ma, al di là delle que­stioni ter­mi­no­lo­gi­che, l’importante ora è che la cri­tica della pro­prietà rie­sca a porsi all’altezza delle tra­sfor­ma­zioni radi­cali della pro­prietà stessa.

Le que­stioni da affrontare

La forza estrat­tiva della pro­prietà ha oggi dimen­sioni quan­ti­ta­tive, ma soprat­tutto qua­li­ta­tive e inten­sive, nuove: è oggi diven­tata estra­zione di valore dall’intera società, attra­verso mol­te­plici e intri­cate forme di sfrut­ta­mento del lavoro e forme di spos­ses­sa­mento delle risorse, cogni­tive e mate­riali. In que­sto qua­dro, un radi­ca­mento reale sul ter­reno costi­tuente richiede che si affronti diret­ta­mente il pro­blema dell’organizzazione poli­tica di que­ste lotte e della loro con­nes­sione più ampia con le lotte del lavoro vivo in tutte le sue forme. Solo se i movi­menti dei beni comuni attra­ver­se­ranno in pieno, come già hanno a tratti mostrato di saper fare, le que­stioni gene­rali della coo­pe­ra­zione sociale nella metro­poli, della crisi del wel­fare, del red­dito, potremo evi­tare il rischio che la forza anti­pro­prie­ta­ria dei beni comuni sia rias­sor­bita in un paci­fi­cato com­mons mana­ge­ment, e che l’«oltre il pub­blico e il pri­vato» sia cat­tu­rato dagli infi­niti dispo­si­tivi di governo pubblico/privato che garan­ti­scono il fun­zio­na­mento pro­prio di quel nuovo estrat­ti­vi­smo che inten­diamo combattere.

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