La lezione americana e l’euro debole ultime chances per battere la recessione

La lezione americana e l’euro debole ultime chances per battere la recessione

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DA ANNI ormai l’industria esportatrice italiana e francese spera che la Bce «faccia qualcosa di americano»: una politica di acquisti di bond come quella della Fed, che restituisca quella svalutazione competitiva cui gli Usa hanno fatto ricorso.

ORA uno scivolone dell’euro diventa sostanzioso, dura ormai da qualche mese. Bisogna sperare che non sia solo un fatto stagionale (d’estate anche le fabbriche tedesche chiudono per ferie, l’export made in Germany rallenta ciclicamente, e l’attivo commerciale tedesco è un fattore chiave dietro l’euro forte). Ma la speranza stavolta può appigliarsi alle parole di Draghi – non convenzionale e flessibile – in questo discorso americano. E’ possibile che, sia pure con cinque anni di ritardo, il modello americano cominci a fare breccia nelle roccaforti del pensiero unico europeo. A cominciare dall’Eurotower di Francoforte, sede della Bce. Il modello americano, è quello che ha generato 61 mesi di crescita, ha dimezzato il tasso di disoccupazione al 6%. Con due leve: investimenti pubblici anti-recessivi (manovra del gennaio 2009) cioè “flessibilità”; e acquisti massicci di bond sui mercati (4.400 miliardi di dollari) ad opera della Federal Reserve, un’operazione “non convenzionale” mirata non a beneficiare le banche bensì ad irrorare di liquidità l’economia reale, imprese e famiglie. A sottolineare la profonda differenza tra le due sponde dell’Atlantico, basta uno striscione. Sopra c’è scritto: «What Recovery? » Quale ripresa? Lo sbandiera un gruppetto di manifestanti accampati davanti alla sede di Jackson Hole dove sono riuniti i banchieri centrali. Ma il paradosso è che i manifestanti sono americani e ce l’hanno con la Fed. Lamentano un dato che la Yellen conosce bene: nonostante cinque anni di crescita ininterrotta, e una disoccupazione scesa ai minimi dal 2006, l’America ancora non si sente fuori dal tunnel. Le ragioni sono soprattutto due. Da una parte c’è una sottoccupazione nascosta, troppi lavoratori hanno finito per accettare posti a part-time e con salari modestissimi, così sono usciti dalle statistiche della disoccupazione, ma non per questo stanno bene. E anche tra gli altri occupati, quelli
che il posto non l’hanno mai perduto o l’hanno trovato a tempo pieno, le retribuzioni languono. Il potere d’acquisto della famiglia media è più basso oggi che nel 2007, anno zero della crisi. Di qui lo striscione della protesta.
Visto con gli occhi europei lo stato di salute dell’economia americana è invidiabile. Dal 2008 l’eurozona ha avuto solo dei brevi e fugaci sussulti di crescita, presto soffocati dalle politiche di austerity, dalla mancanza di fiducia di consumatori e imprese, da un euro forte, da una politica monetaria timida, ora perfino da turbolenze geostrategiche come l’Ucraina. Se la prima Grande Recessione nacque a Wall Street, la seconda e terza puntata di questa crisi sono state fabbricate dentro l’eurozona, dalle politiche economiche sbagliate.
Da Paul Krugman a Jospeh Stiglitz, i Nobel dell’economia si chiedono se l’eurozona (non l’intera Unione europea, dove invece il caso inglese fa eccezione positiva) sia ormai in una “decade giapponese”. Traduci: depressione di lungo periodo, associata a deflazione che peggiora
i conti pubblici perché appesantisce deficit e debito misurati su un Pil sempre più magro. In quanto al mercato del lavoro, la disoccupazione nell’eurozona è sopra l’11% quindi quasi il doppio di quella americana. E si tratta di una media, abbassata da Paesi come Germania Olanda Austria dove i disoccupati sono pochi; la situazione in Italia Francia e Spagna è tre volte peggiore che negli Usa.
Gli alibi invocati finora per spiegare la scarsa efficacia antirecessiva della Bce sono due. Primo: la Bce ha il mandato istituzionale di garantire la stabilità dei prezzi mentre la Fed ha nel suo statuto anche la difesa dell’occupazione. Secondo: l’eurozona ha una banca centrale ma non ha un governo dell’economia a differenza degli Stati Uniti. Le attenuanti valgono solo in parte. Per quanto riguarda la missione della Fed, in realtà è oggetto di una vivace controversia. I falchi, sostenuti dal partito repubblicano, stanno battendosi perché la Fed sia un po’ più simile alla Bce. «Da cinque anni annunciano il ritorno dell’inflazione e quindi reclamano una stretta monetaria, hanno sempre sbagliato ma persistono, è chiaro che lo fanno in difesa di precisi interessi», sostiene Krugman.
Insomma il mestiere di banchiere centrale è politico, non tecnico. E la Yellen ha chiaro da che parte vuole stare: da quella dei lavoratori, non dei percettori di profitti. In quanto al governo dell’economia, anche l’eurozona ne ha uno, il problema è che sta a Berlino. Dove l’ultima volta che ha sentito parlare di flessibilità, il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schaeuble ha detto: «L’unico problema che hanno alcuni paesi, è che devono imparare a rispettare le regole».


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