L’odio antisemita sui muri di Roma

by redazione | 10 Agosto 2014 10:47

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IERI sono stati affissi a Roma dei manifesti, per invitare a boicottare i negozi di cittadini italiani ebrei. La specie peculiare di razzismo che è l’antisemitismo si avvale delle circostanze per alzare la testa. La forma più triviale è questa, che identifica Israele con gli ebrei.
LO Stato di Israele si dichiara lo Stato degli ebrei, e fra i suoi cittadini gli ebrei sono gran maggioranza. Ma gli ebrei del mondo non sono israeliani, salvo che lo scelgano. A Roma, sono cittadini romani, fra i più antichi. Sono liberi di condividere o no, più o meno, l’operato dei governi israeliani, come ogni altro cittadino del mondo. La solidarietà che sentono verso Israele è il sentimento più facile da spiegare fra quelli ereditati dalla storia. Chi li privi della libertà di giudizio, o li condanni a un’adesione gregaria all’operato dei governi israeliani, è un’opinione demenziale. E non vale nemmeno per i cittadini di Israele.
Appena meno grossolana è la distinzione: “Io non sono antisemita, sono antisionista”. Chiedetegli che cosa voglia dire sionismo. Gli ebrei minacciati di sterminio (la parola sterminio era pronunciata molti anni prima dell’avvento del nazionalsocialismo) scelsero fra restare o cercare in Palestina un rifugio dalle persecuzioni e una patria. La scelta prese anche un valore politico: Marek Edelman, combattente di punta e scampato alla rivolta del ghetto di Varsavia, non volle mai lasciare la Polonia e dissentì dai suoi compagni che andarono in Israele. Fu, con il glorioso partito ebraico “Bund”, antisionista.
L’opposizione aveva un valore politico, non di una reciproca messa al bando. Il sionismo fu la creazione di Theodor Herzl (morto nel 1904) che si convinse dell’inanità degli sforzi di assicurare agli ebrei un futuro nei confini degli Stati del suo tempo, e che su loro incombesse la distruzione. La sinistra terzomondista fece dell’antisionismo un sinonimo di antimperialismo. Sarebbe stupefatta scoprendo che in Israele cittadini fieramente sionisti sono di sinistra, strenuamente contrari alla conduzione della “guerra” di Gaza e agli insediamenti. L’equiparazione fra sionismo e imperialismo — o, peggio, fra sionismo e razzismo antiarabo (gli arabi sono “semiti”) — fornisce all’antisemitismo una variante eufemizzata: però infondata. Errori, malefatte o crimini compiuti da sionisti vanno considerati nel loro merito, e non attribuiti alla categoria. Il sionista Zeev Sternhell ieri ammoniva Israele sui pericoli per la sua democrazia.
Le distruzioni che ho visto a Gaza City sono enormi, ma hanno un andamento alterno. Benché quartieri siano terribilmente colpiti, edifici intatti si alternano a quelli in rovina, lasciando immaginare che si sia mirato a bersagli, anche se all’ingrosso e finendo spesso fuori, comprese scuole e ospedali. Nel villaggio di Khuza è intervenuta l’artiglieria, gli aerei, i tank, le ruspe: le macerie sono ininterrotte e pressoché compattate. Una simile distruzione può venire dalla neutralizzazione dei tunnel o dallo scontro con dei resistenti? Rientrato, ho letto per la prima volta il racconto di uno scrittore celebre in Israele (dov’è morto novantenne nel 2006), S. Yizhar, tradotto da noi col titolo “La rabbia del vento”. In originale “Hirbat- Hiza”, in arabo “La rovina di Hiza”. Yizhar racconta nel 1949 — un anno dopo la proclamazione dello Stato di Israele — lo sgombero militare di un villaggio dai civili arabi, vecchi donne e bambini, da espropriare e deportare oltre confine; la rassegnazione inerme, schernita dai soldati come codardia, e il turbamento che si insinua in lui man mano che riconosce in quei nemici la condanna all’esilio e all’umiliazione. Il libro sollevò furiose controversie e entrò nei programmi scolastici. Yizhar era uno scrittore sionista, com’è Abraham Yehoshua.
C’è un altro argomento “forte”: quello del rinnegamento di sé, o della ritorsione. Chi lo impiega si convince di incarnare la voce più nobile dell’ebraismo, pur non appartenendogli. “Proprio voi, che avete subito la Shoah, ora vi comportate come i nazisti”. I moltissimi che vi ricorrono commettono, credo, un errore di fatto e uno morale. Di fatto, il paragone fra Gaza e la Shoah è così smisurato da anestetizzare, piuttosto che far risaltare la sofferenza. Di più, chi accusa gli israeliani di essere i nuovi nazisti fa della Shoah un proprio titolo morale. I discendenti delle vittime della Shoah non possono invocarla a giustificazione di crimini di oggi; ma i discendenti degli autori della Shoah o di chi non la impedì o comunque le restò estraneo non possono sentenziare in suo nome.
C’è una terza implicazione, cui Wlodek Goldkorn allude a proposito del desiderio di emulare i combattenti del ghetto, così da figurarsene la replica. Non si ripete quella guerra, non quella rivolta, e bisogna essere grati di non essercisi trovati. Il suo maestro Edelman ammoniva bruscamente contro questi grilli per il capo. Abbiamo provato qualcosa di simile, nel rimpianto e nel desiderio di emulazione per la Resistenza. Guardavo ragazze e ragazzi soldato israeliani in atteggiamento da libera uscita, anche al fronte, 18 anni, 19, e un loro modo di abbracciarsi stretti come se non si vedessero da dieci anni, o fossero destinati a non vedersi più, e poi la loro efficienza militare, e le tracce sprezzanti e feroci che hanno lasciato al passaggio, e mi chiedevo che cosa ci fosse dietro cameratismo e tracotanza. Pensano di battersi contro i nazisti? Forse nel loro animo c’è, rovesciato, il malinteso che fa dire agli avversari che “gli israeliani — leggi: gli ebrei — sono diventati come i nazisti”? I capi di Hamas e Jihad vogliono la distruzione degli ebrei, ma i nazisti avevano dalla loro la potenza soverchiante. Non ce l’ha Hamas. E i palestinesi di Gaza si stringono (quanto, in verità?) dietro Hamas mentre Israele bombarda, ma i tedeschi dietro Hitler erano altra cosa. Qui a fronteggiarsi sono la terza generazione dopo la Shoah contro la terza generazione dopo la Nakba — la catastrofe palestinese.
Il tic del nazismo si riaffaccia nel “Manifesto” pubblicato per raccogliere firme, che invoca una “Norimberga” per Israele. Esiste un tribunale internazionale, tribunali ad hoc, ma intitolare a Norimberga il proprio appello vuole sottolineare l’equazione Israele-nazismo. A questa Norimberga si dichiara di voler portare come imputato “lo Stato di Israele”, e non i suoi provvisori governanti o autorità militari. Un tribunale può condannare uno Stato, com’è successo con l’Olanda per Srebrenica, ma in questo caso gli autori dell’appello (non so quanti firmatari l’abbiano notato) cita lo Stato di Israele dalla sua fondazione, con ciò implicando l’illegittimità della sua esistenza. Bisognerebbe tutti respingere le infamie vistose e provocatorie, fare la spesa nei negozi, e far ronzare il drone dell’intelligenza sulle questioni intricate. Se davvero si abbia a cuore che israeliani e palestinesi smettano di odiarsi e menarsi là, e qua i loro tifosi.

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