Misure straordinarie per l’Europa? Senza riforme, Draghi starà fermo

Misure straordinarie per l’Europa? Senza riforme, Draghi starà fermo

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JACKSON HOLE — Il presidente della Banca centrale Mario Draghi, nel suo discorso al simposio dei banchieri centrali a Jackson Hole, ha chiesto investimenti e politiche più favorevoli alla crescita e invitato gli Stati europei a usare meglio la flessibilità prevista nei Trattati, promettendo in cambio il sostegno della politica monetaria della Bce. Ma per Martin Feldestein, 74 anni, docente all’Università di Harvard, il cambiamento di tono del presidente della Bce non deve trarre in inganno. «Le riforme strutturali restano al centro delle preoccupazioni di Draghi e la politica monetaria espansionistica della Bce continuerà solo se gli Stati faranno le riforme», afferma l’ex capo economista di Ronald Reagan, presidente emerito del National Bureau of Economic Research, e con Ben Bernanke il candidato più accreditato a succedere ad Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve nel 2005.

Professor Feldstein, come valuta la svolta di Draghi che chiede agli Stati dell’eurozona più investimenti e meno austerità, pur nell’ambito delle regole europee?
«Draghi ha enfatizzato anche e soprattutto il bisogno di riforme strutturali. Dopo il suo discorso, durante la discussione a porte chiuse, qualcuno gli ha chiesto se la Bce avrebbe continuato una politica monetaria espansiva nel caso non venissero fatte le riforme necessarie. Ho preso appunti. Draghi è stato molto netto, ha risposto che le politiche monetarie espansive hanno rischi e costi e perciò sarebbe un errore proseguire su questa strada in assenza di riforme. Ha inoltre posto l’accento sugli interventi che partiranno a settembre per concedere prestiti condizionati e a tassi agevolati al sistema bancario per favorire gli investimenti. Ci crede molto. Di sicuro non ha mai pronunciato la parola Quantitative Easing».
Ma in molti continuano a fare pressioni sulla Bce affinché lanci un programma di acquisto di titoli sul mercato, il cosiddetto Quantitative Easasing o QE, per stimolare la crescita europea come è successo negli Stati Uniti. Crede che sarebbe utile?
«L’obiettivo del QE in America era di abbassare i tassi di interesse nel lungo periodo, ma in Europa i tassi sono già estremamente bassi».
Il QE però è servito anche a indebolire il dollaro sull’euro, favorendo l’export americano e complicando le cose in Europa. Un indebolimento dell’euro invece allontanerebbe il rischio di deflazione, oltre ad aumentare la competitività europea.
«Draghi si aspetta che l’indebolimento sarà sostenuto dalla divergenza delle politiche monetarie in America e nell’eurozona».
Janet Yellen nel suo discorso ha spiegato che la politica monetaria della Fed dovrà essere pragmatica, aprendo alla possibilità che la stretta possa avvenire prima e più velocemente di quanto ci si aspetti, ma senza escludere che potrebbe invece accadere più tardi, se le condizioni del mercato del lavoro resteranno fragili, inflazione permettendo. Quando immagina che la Federal Reserve comincerà a rialzare i tassi?
«Janet Yellen non ci ha dato nessun indizio sui tempi. Il suo discorso mi è sembrato molto accademico più che da presiedente della Fed. Quello che mi ha colpito è che non ha detto proprio nulla sui rischi sistemici».
Teme il pericolo di bolle sui mercati?
«Penso che i tassi di interesse di breve e lungo termine eccezionalmente bassi per un periodo così lungo di tempo hanno spinto gli investitori e le istituzioni finanziarie a cercare rendimenti più remunerativi, e quindi a fare investimenti più rischiosi. Purtroppo non abbiamo politiche e strumenti macro-prudenziali per mitigare i rischi che ne derivano. Il problema quindi è come gestire i prezzi gonfiati degli asset senza gli strumenti adeguati, se la politica monetaria resta accomodante troppo a lungo. La Federal Reserve con la politica monetaria dovrebbe tenere conto di 3 cose: disoccupazione, inflazione e i rischi legati a potenziale instabilità nel settore finanziario. Yellen invece ha tolto dal tavolo i rischi finanziari per concentrarsi esclusivamente sul mandato duale di pieno impiego e inflazione».
E’ ottimista sugli Stati Uniti?
«Sono ottimista nel lungo periodo. Quest’anno l’economia sta crescendo a un passo più sostenuto, ed entreremo nel 2015 a un ritmo del 3%. Nel breve periodo? Non credo che una bolla scoppierà nei prossimi 12 mesi, ma non mi piace vedere il sistema finanziario accumulare tutti questi rischi».
Nel ‘97 scrivendo sulla futura unione monetaria e l’introduzione dell’euro, lei mise in guardia contro le conseguenze economiche avverse di una moneta unica su disoccupazione e inflazione, spiegando che sebbene concepito per ridurre il rischio di un’altra guerra intra europea, molto probabilmente l’euro avrebbe avuto l’effetto opposto e aumentato i conflitti sia all’interno dell’Europa che con gli Usa. Parole profetiche. Oggi vediamo i Paesi del Nord Europa contro il Sud, Francia e Italia contro la Germania, guerre valutarie globali. Cosa prevede?
«Niente di buono. Non abbiamo avuto una guerra, ma i conflitti sono aumentati. Ai governi non piace che sia la Germania a decidere per loro. Di certo mettere insieme 18 Paesi in un’unica area monetaria non è stata una grande idea. Ma non è totalmente irreversibile. Se l’Europa continua a non crescere per i prossimi 5 anni, e l’unica risposta da Bruxelles e Francoforte a chi non fa le riforme sarà una richiesta di maggiore austerità, verrà a mancare il sostegno politico per difendere l’euro, anche se non sto dicendo che questo è quello che accadrà. Il Fiscal Compact è uno strumento vuoto e inutile. E non credo nemmeno a chi sostiene che la soluzione per salvare l’Unione sia una maggiore integrazione delle politiche fiscali. Non riesco davvero a immaginare 18 Paesi che rinunciano al potere di formulare e correggere le proprie leggi di bilancio come succede per il budget americano. Perciò penso che l’integrazione non andrà molto lontano».
Giuliana Ferraino


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