Obama attacca la polizia “Verità sul ragazzo ucciso”

Obama attacca la polizia “Verità sul ragazzo ucciso”

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CRESCE LA RIVOLTA PER LA MORTE DEL GIOVANE NERO
NEW YORK. NON c’è scusa se la polizia usa una forza eccessiva contro dei manifestanti pacifici, se sbatte in carcere chi protesta esercitando un diritto costituzionale ». Obama interviene duramente per spegnere l’incendio delle proteste razziali che divampano da una settimana a Ferguson, sobborgo di Saint Louis.
IL PRESIDENTE si addentra su un campo minato: ogni volta che lui affronta la questione razziale scatta da destra il processo contro il “presidente di parte”. Obama non si lascia intimidire, interrompe le vacanze a Martha’s Vineyard per parlare di Michael Brown: il 18enne nero ucciso a Ferguson da un poliziotto il 9 agosto.
Tutte le ricostruzioni confermano che Brown era disarmato. Il poliziotto, che sparò più colpi, viene protetto dai suoi capi che si rifiutano di rivelarne il nome. Dal 9 agosto a Ferguson la popolazione afroamericana scende in piazza ogni sera, e la risposta della polizia è di una violenza “militare”. «Bagdad, Usa» è il titolo dello Huffington Post. Le scene che gli americani vedono in tv tutte le sere sembrano più adatte a Gaza o all’Iraq. Reparti speciali armati come in guerra, i cosiddetti Swat, con l’appoggio di mezzi blindati, affrontano manifestazioni per lo più pacifiche. La violenza viene quasi sempre da una parte sola: la polizia. In carcere finiscono due giornalisti dello Huffington Post e del Washington Post , brutalizzati per avere ripreso con gli smartphone le violenze poliziesche. In prigione anche un deputato locale che ha osato partecipare alle marce di protesta.
L’intervento di Obama segna una svolta. «Negli Stati Uniti d’America — dichiara — la polizia non dovrebbe intimidire o arrestare giornalisti che stanno facendo il loro mestiere, che descrivono agli americani ciò che vedono. Dobbiamo essere giudicati con severità, noi che esercitiamo il potere». Il presidente annuncia l’apertura immediata di due indagini federali, una dell’Fbi e l’altra del Dipartimento di Giustizia, per accertare le responsabilità della polizia locale. Le parole di Obama hanno un effetto immediato: il governatore del Missouri, il democratico Jay Nixon, promette a breve il «ritiro della polizia locale» e altri «cambiamenti operativi» ai vertici delle forze dell’ordine che hanno gestito (o provocato) il disastro.
L’America liberal, attaccata al Primo Emendamento e alla libertà di espressione, scopre con costernazione che questi diritti vengono calpestati dalle polizie locali. I cronisti dei tg piangono e urlano in diretta perché soffocati dai gas lacrimogeni; reparti blindati adatti a invasioni di paesi nemici occupano una cittadina nel cuore dell’America profonda. «Lo spettacolo di ufficiali in tenuta mimetica che sparano sulla popolazione con armi automatiche crea un’attenzione senza precedenti sul livello di militarizzazione della polizia americana», denuncia l’ Huffington Post.
Senza aspettare i risultati delle due indagini volute da Obama sulla morte di Brown, il gruppo di disobbedienza civile Anonymous è passato all’azione: penetrando nel sistema informatico della polizia locale ha divulgato il nome del poliziotto che avrebbe ucciso il giovane Brown. La polizia di Ferguson smentisce, ma intanto il nome circola. Altre organizzazioni che militano per i diritti civili, tra cui l’American Civil Liberties Union, fanno ricorso contro il dipartimento di polizia della contea, perché tolga il segreto dai «rapporti interni sull’incidente», quelli che possono rivelarela dinamica che ha portato all’uccisione del ragazzo nero.
Dopo aver puntato l’indice sulle colpe della polizia, Obama invita la nazione alla calma: «È l’ora di curare le nostre ferite, è il momento di ritrovare la pace e la calma per le vie di Ferguson ». Ribadisce anche che per arrivare a questa pacificazione «occorre la trasparenza, la garanzia che sia fatta giustizia». La destra repubblicana e i talkshow della Fox Tvdi Rupert Murdoch si scatenano. Il presidente viene accusato di aizzare all’odio razziale, come accade ogni volta che Obama deve addentrarsi su questo terreno minato. Lo ha fatto in due casi precedenti. La prima volta nell’estate del 2009, quando Obama era da pochi mesi alla casa Bianca. A Boston un poliziotto arrestò un celebre professore universitario afroamericano, Henry Louis Gates: colpevole di entrare a tarda sera a casa sua, dunque presunto ladro perché nero in un quartiere benestante. Obama osò difenderlo. Dovette fare marcia indietro, accusato di avere «delegittimato le forze dell’ordine», fu costretto ad un umiliante incontro di riconciliazione con l’agente che aveva commesso l’abuso. Poi nel 2012 un giovane nero disarmato, Trayvon Martin, fu ucciso: e l’assassino assolto «per legittima difesa» in un processo-farsa. «Quel Trayvon Martin, potevo essere io 35 anni fa», disse Obama rievocando la propria giovinezza, le tante volte in cui aveva sentito sulla sua pelle l’ostilità preconcetta della polizia, il sospetto sistematico, la discriminazione nell’applicare le leggi.



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