Piano segreto a Wall Street le banche in fuga a Dublino se Londra va fuori dalla Ue

Piano segreto a Wall Street le banche in fuga a Dublino se Londra va fuori dalla Ue

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NEW YORK . All’inizio era solo un mugugno. Preoccupati per la “Brexit” (Britain exit), come è chiamata la prospettiva di una uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, i banchieri della City, e in particolare gli “ambasciatori” dei colossi di Wall Street, avevano cominciato a lamentarsi tra di loro e con l’entourage di George Osborne, cancelliere dello Scacchiere di Sua Maestà.
«Vogliamo che Londra resti nell’Europa», ripetevano in ogni incontro nei club o nelle sale del Tesoro. «Se ve ne andate, il nostro business verrà frammentato e la City ne subirà le conseguenze ». Ma l’ondata euroscettica che negli ultimi mesi ha cambiato la geografia politica britannica, suggerendo al premier David Cameron di lanciare per la fine del 2017 un referendum proo- contro la Ue, ha convinto le banche americane a passare dagli avvertimenti generici ai preparativi concreti per la fuga. In caso di divorzio inglese, fanno sapere, sono già pronte a trasferirsi all’estero. Dove? A Parigi, a Francoforte o, con maggior probabilità, a Dublino, per i vantaggi che offre loro l’Irlanda in termini di lingua, di facilitazioni fiscali e di somiglianza delle legislazioni.
Londra rischia grosso. Negli ultimi 15 anni circa 250 banche internazionali, attratte da un mercato unico europeo da 16mila mila miliardi di dollari, hanno consolidato nella City le loro operazioni finanziarie nel vecchio continente. Gli effetti si sono visti non solo nello skyline londinese, con la costruzione di nuovi grattacieli avveniristici e la ristrutturazione di palazzi storici, come quello della Goldman Sachs lungo Fleet street, ma soprattutto in termini economici e occupazionali. Si calcola che in Gran Bretagna due milioni di persone lavorino nella finanza o in attività collegate, contribuendo al 12,6% del Pil e al 12% degli introiti fiscali. Il surplus commerciale prodotto dal settore finanziario è di 71 miliardi di dollari.
La “Brexit” farebbe però venir meno quella sorta di “passaporto europeo” di cui hanno goduto finora i banchieri internazionali della City. La Ue imporrebbe limiti all’attività da paesi terzi: per poter continuare a operare negli altri paesi del vecchio continente, gli istituti americani e esteri sarebbero costretti a spostarsi altrove, trasformando Londra in una sorta di centro “off-shore”. «Certo, traslocare è complicato e costoso, ma non impossibile», dice al Financial Times, Barney Reynolds, un partner dello studio legale Shearman & Sterling. E secondo voci raccolte dal quotidiano economico britannico, tre giganti di Wall Street — Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley — avrebbero già individuato nell’Irlanda la loro nuova, ipotetica sede europea. Paradossalmente è il percorso inverso di quello compiuto negli ultimi anni, in cui — su pressione delle autorità bancarie britanniche, ma anche per ragioni fiscali — le banche americane tendevano a spostare tutto da Dublino a Londra. Ad esempio la BofA (Bank of America) ha appena trasferito in Gran Bretagna il suo business da 600 miliardi di dollari di reddito fisso e prodotti derivati.
Per ora la Goldman Sachs, che ha sempre avuto una importante presenza in Europa tramite il quartiere generale di Fleet street (Peterborough Court era la vecchia sede del Telegraph), non ha piani precisi per la fuga. «Ma sia chiaro», tuona Michael Sherwood, vice-presidente del gruppo: «Ogni minaccia alla permanenza della Gran Bretagna nella Ue, è una minaccia al mondo britannico del business». Il dirigente della Goldman Sachs non è il solo a pensarla così: secondo un sondaggio condotto pochi mesi fa da TheCityUK, una lobby bancaria, l’84% dei dirigenti finanziari sono contrari al “Brexit”. Il problema? Che non lo possono dire a voce troppo alta perché, in un momento in cui i banchieri non godono di buona fama, una presa di posizione esplicita rischia di avere un effetto contrario alimentando il partito degli euroscettici



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