Siria, l’“offerta” di Assad a Obama

by redazione | 26 Agosto 2014 11:34

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NEW YORK . Contro il Grande Califfato islamico è pensabile un’alleanza oggettiva — sia pure non dichiarata — tra gli Stati Uniti e Assad? Dalla Siria arrivano messaggi contraddittori. Il ministro degli Esteri di Damasco, Walid al Muallim, annuncia che il suo governo è pronto a cooperare con la comunità internazionale (America inclusa) per debellare le milizie jihadiste dell’Is. Fa riferimento a una risoluzione delle Nazioni Unite che autorizza sanzioni contro gruppi jihadisti in Siria e in Iraq; proprio mentre dal Palazzo di Vetro l’alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay accusa le milizie dello Stato Islamico di compiere «un genocidio etnico-religioso».
Lo stesso ministro degli Esteri siriano però lancia anche un monito rivolto agli Stati Uniti: se dovessero estendere i loro attacchi aerei contro le milizie dell’Is al territorio siriano senza averle concordato con Damasco, «sarebbe un’aggressione unilaterale ». È dello stesso parere la Russia. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, conferma: «Qualsiasi piano per combattere lo Stato Islamico sul territorio della Siria va condotto con l’accordo delle legittime autorità ». Lavrov ironizza sulle contraddizioni americane, ricordando che un anno fa Obama pensava di bombardare Assad: «All’origine — dice il russo — gli europei salutavano con favore l’Is perché combatteva contro Assad, proprio come appoggiarono i mujahiddin che in seguito crearono Al Qaeda e li colpirono l’11 settembre 2001» (riferimento all’invasione sovietica dell’Afghanistan).
Le parole di Lavrov mettono il dito nella piaga. Indicano una delle resistenze di Barack Obama di fronte allo scenario di un allargamento dei combattimenti contro lo Stato Islamico in Siria. È il timore di apparire come il salvatore di Assad uno degli ostacoli che frenano Obama. In casa sua, il presidente americano è sotto pressione per rafforzare l’offensiva contro i fautori del Grande Califfato. Dopo la decapitazione del giornalista James Foley, si sono moltiplicati a Washington gli appelli per un’azione militare più dura. Ma vengono soprattutto dalla destra repubblicana. «Tutte le opzioni devono essere sul tavolo, per sconfiggere le bande jihadiste, incluso l’invio di truppe terrestri americane in Siria», dichiara il senatore repubblicano Lindsey Graham della South Carolina, un falco in politica estera.
Mike Rogers, deputato repubblicano che presiede la Commissione sui servizi segreti, aggiunge: «I combattenti islamici in Siria sono una minaccia diretta per la nostra sicurezza.
Gli basta un biglietto aereo per arrivare qui, e i nostri servizi ci dicono che 2.000 fra loro hanno passaporti occidentali che danno accesso al nostro territorio».
Nell’opinione pubblica però non c’è sostegno verso un’azione militare estesa. All’interno dell’Amministrazione Obama, sono al Pentagono i fautori di un allargamento dei bombardamenti che includa dei bersagli sul territorio siriano. Il segretario alla Difesa Chuck Hagel ha definito l’Is «una minaccia imminente, più pericolosa di tutte quelle che abbiamo fronteggiato». Il Capo di stato maggiore generale Martin Dempsey ha detto che per colpire efficacemente le milizie agli ordini di Al Baghdadi bisogna andare a bombardare anche le sue basi in Siria.
Il presidente non ha dato alcun segnale di consenso verso i consigli dei vertici militari. I suoi collaboratori descrivono così le sue
riserve. Primo, Obama vede l’Is come una minaccia potenziale ma non immediata per la sicurezza degli Stati Uniti; questo esercito fondamentalista sunnita sembra molto più focalizzato sul suo “nemico vicino” (gli sciiti) che non sul “nemico lontano” contro cui si accaniva Al Qaeda ai tempi di Osama Bin Laden. Inoltre Obama non è disposto a fornire un aiuto, sia pure indiretto, al regime di Assad, che accusò di crimini di guerra all’epoca delle stragi chimiche dei civili. Infine il presidente non crede sia realistica una guerra limitata. E a conferma di quanto lo scenario sia complicato, la Casa Bianca ha “scoperto” solo a cose fatte che Egitto ed Emirati Arabi hanno agito insieme per bombardare milizie islamiche in Libia. L’ipotesi di una santa alleanza tra dittature locali contro l’Is non agevola le scelte di Obama

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