Tante scuse e nessuna giustizia per i civili afghani uccisi dagli americani
In Afghanistan non c’è giustizia per le vittime civili. Si può essere uccisi in casa propria, da soldati stranieri, si possono veder morire figli, mogli, fratelli o sorelle, non riuscire a capirne il perché, rimanendo in attesa di una giustizia che non verrà.
Il rapporto reso pubblico due giorni fa da Amnesty International — Left in the Dark: Failures of Accountability for Civilian Casualties Caused by International Military Operations in Afghanistan — denuncia con episodi specifici e documentati l’impossibilità per i parenti delle vittime civili di ottenere giustizia. Sono migliaia gli afghani non combattenti uccisi dalle forze internazionali dal 2001 in poi, ma nella maggior parte dei casi – recita il rapporto – anche quando ci sono prove evidenti di una condotta irregolare, i parenti delle vittime non hanno alcun mezzo per rivendicare giustizia. Tantomeno per ottenerla.
Lo studio redatto dai ricercatori di Amnesty International si base su una serie di interviste raccolte nel luglio 2013 e nel marzo 2014 e si concentra sul quinquennio 2009–2013: in questi 5 anni sarebbero soltanto 6 i processi aperti nei confronti di soldati stranieri per l’uccisione di afghani innocenti, a cui vanno aggiunti 10 imputati già condannati, tra i quali il famigerato sergente Robert Bales, condannato all’ergastolo lo scorso agosto per aver ucciso a sangue freddo nel marzo dell’anno precedente nella provincia di Kandahar 16 civili, tra cui 9 bambini, lasciando dietro di sé una serie di cadaveri bruciati.
Sono 10 i casi-studio analizzati in dettaglio nel rapporto. Dieci casi che raccontano le storie di 150 civili uccisi in varie province, soprattutto in quelle orientali come Nangarhar, Kunar, Laghman. Proprio nella provincia di Laghman il 16 settembre 2012 è avvenuto uno degli episodi più tragicamente insensati: alcune giovani donne si erano riunite, intorno a mezzanotte, per raccogliere legna da fuoco. Alle 3 del mattino degli aerei americani hanno sganciato una serie di bombe sul gruppo di donne, uccidendone 7, come racconta ai ricercatori di Amnesty International una delle sopravvissute, la 17enne Aqel Bibi. Il seguito è una storia che si ripete: i parenti delle vittime che si rivolgono ai leader locali, i quali denunciano l’episodio al governatore provinciale, il quale a sua volta interpella gli americani. Gli stranieri che prima negano, sostenendo di aver colpito un gruppo di «insorti» e poi, sotto pressione, ammettono «l’incidente» e si scusano pubblicamente. I parenti che, oltre alle scuse, chiedono l’avvio di un’indagine e un processo vero e proprio che non prenderà mai piede.
Aspettano un processo che non ci sarà anche i parenti dei 5 ragazzi innocenti uccisi il 4 ottobre 2013 da due elicotteri americani nel distretto di Beshud, nella provincia di Nangarhar: prima dei ricercatori di Amnesty, solo il manifesto aveva ricostruito la loro storia (17 ottobre 2013), raccogliendo la voce dei parenti che, dissero in quei giorni a chi scrive di voler «vedere i soldati stranieri sotto processo» in Afghanistan. Quel processo non si terrà mai, perché i soldati americani sono immuni rispetto alla legge afgana. Così stabilisce il Sofa, lo Status of Forces Agreement firmato nel 2003 dall’allora ministro degli Esteri afghano Abdullah Abdullah, ora candidato alla presidenza insieme ad Ashraf Ghani.
L’accordo stabilisce che, in caso di abusi compiuti sul territorio dell’Afghanistan, i soldati a stelle e strisce rispondano alle proprie leggi, non a quelle locali. E come denuncia il rapporto Left in the Dark, oltre «alle rilevanti falle strutturali nel sistema della giustizia militare degli Stati Uniti», rimane il fatto che siano gli stessi militari e non altri a giudicare ciò che merita un processo, un’ammenda amministrativa, o l’oblio, come nella maggior parte dei casi. L’oblio contro cui lottano i parenti delle vittime afghane
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