Il tatuaggio di Katrina
Closed for storm recita una scritta sbiadita ma ancora in evidenza. Quasi nove anni dopo l’uragano Katrina, il più grave disastro naturale della storia degli Stati Uniti in termini economici, il Six Flags Park di New Orleans, l’ex parco dei divertimenti situato nel Ninth Ward, una delle zone più colpite della città, è ancora abbandonato. Intorno erbacce, immondizia, uno stato di degrado da far paura. Simbolo, almeno in parte, del fallimento dell’amministrazione cittadina, proprietaria dell’area e incapace di portare a termine quello che era stato annunciato come uno dei più grandi progetti di riqualificazione urbana degli Usa. «La città oggi è in condizioni migliori di quanto non lo fosse otto anni fa», continua a ripetere come un mantra il sindaco Mitch Landrieu. Passi avanti, naturalmente, sono visibili in molti zone della città, e il cosiddetto Katrina tattoo, la linea presente in molti edifici che segnava l’altezza massima raggiunta dalle acque, sta pian piano scomparendo.
Ma i numeri resi noti dal Greater New Orleans Community Data Center raccontano un’altra storia. Quella di una città incredibilmente povera, con un tasso di povertà che sfiora il 30% (contro il 16% della media nazionale), affitti sempre più alti, trasporti sempre più in crisi e una scuola pubblica senza più finanziamenti. New Orleans è divenuta anche più piccola, perché dai tempi di Katrina quasi 100mila abitanti, in prevalenza afro-americani, hanno abbandonato l’area. Anche un piccolo ma simbolico progetto di ricostruzione come quello della fondazione no profit «Make it right», finanziata dall’attore Brad Pitt, è finito tra le polemiche perché gran parte delle case realizzate con i fondi raccolti starebbero già marcendo per l’umidità.
Ma al di la di errori umani o politiche poco lungimiranti, il più grande crimine legato all’area intorno a New Orleans resta la sua posizione geografica, considerato che dal 1932 al 2010 sono evaporati 948 chilometri quadrati di zone umide costiere. «Difficile trovare un luogo meno adatto per fondare una città: basso e paludoso, infestato di alligatori e zanzare, malsano», scrive Mario Maffi in «Mississippi», evidenziando come questa zona del Golfo, già costruita sotto il livello del mare, abbia dovuto subire negli ultimi duecento anni uno sviluppo capitalistico sfrenato che ha imbrigliato i fiumi, costringendoli entro argini sempre più alti: «Così da un lato ha impedito loro di esondare depositando terra nelle aree circostanti, e dall’altro ha accresciuto la loro forza e velocità e la loro violenza virtuale ed effettiva». Il risultato è una pianura che continua ad abbassarsi al di sotto del livello dell’oceano. E che prefigura scenari non propriamente ottimistici sul futuro di questa città.
«It is this America?» si chiede il columnist del Chicago Tribune Clarence Page in un articolo che fa da corredo alla mostra «Living with Hurricanes: Katrina and Beyond», che occupa 4 enormi gallerie del Presbytere, dove ha sede il Lousiana State Museum. L’esposizione, dettagliatissima, tiene insieme cronaca, storia e racconto, ripercorre le vicende di quei terribili giorni di fine agosto 2005 e parallelamente racconta le storie dei survivor, i sopravvissuti all’uragano ma costretti ad emigrare altrove alla stregua di veri e propri rifugiati. Un’intera sala è dedicata alle impressionanti immagini di Katrina; scene che evidenziano i danni causati da uno dei cinque più gravi uragani della storia degli Stati Uniti, stimati intorno agli 80 miliardi, ma che mostrano anche i limiti di un sistema di protezione di barriere artificiali immaginato per difendere New Orleans dall’acqua e che invece risultò completamente inadatto. La violenta pressione dell’acqua, come noto, creò delle crepe nelle congiunture tra le dighe e il terreno, che permise all’acqua di filtrare sotto le dighe stesse fino a spazzarle via.
D’altronde la sofferenza, insieme alla creatività, ha sempre fatto parte del Dna di questa città sin da quando fu fondata come avamposto francese nei primi anni del Settecento con il nome di «La Nouvélle Orleans», in onore di Filippo II di Orleans. Originariamente francese, dunque, ma poi spagnola, in seguito al trattato di Parigi, nuovamente francese e infine anglosassone. Un intricato crogiolo di razze e di culture che ha visto convivere gli indiani del Mardì Gras e i discendenti degli schiavi provenienti dall’Africa occidentale, i native american e gli immigrati europei. Per un breve periodo, intorno alla fine dell’Ottocento, l’emigrazione italiana, numericamente consistente in città, fece parlare di sé in seguito ad una serie di omicidi legati a fatti di mafia e ad un’organizzazione criminale denominata «Mano Nera», molto attiva nel racket organizzato. Undici italiani furono anche accusati nel 1890 per l’omicidio del Capo della Polizia, David C. Hennessy, avvenuto in circostanze misteriose mentre investigava su operazioni e omicidi di stampo mafioso. La giuria emise per otto di loro un verdetto di «non colpevolezza» ma la sentenza provocò forti risentimenti nell’opinione pubblica tanto che il giorno successivo al processo una folla fece irruzione nella prigione, impiccò due imputati e sparò agli altri nove, uccidendoli. Un incidente che provocò una breve interruzione dei rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti.
Stile coloniale spagnolo, più che francese, eleganti architetture, vicoli stretti, case a due piani dai colori pastello e decorazioni in ferro battuto, oggi il French Quarter non sarà un luogo per educande ma certo non è più «il posto migliore per comprare un negro». A dettare le regole non sono più i grandi mercanti di schiavi dell’Ottocento ma le spietate leggi del business del turismo, qui a New Orleans la principale fonte di entrata per le casse comunali. Nel 2012 su 9 milioni di visitatori più di sette hanno fatto capitolino a Bourbon Street, la mecca dello sballo contemporaneo, una distesa di luci al neon che si estende parallela al Mississippi River per 7 isolati e che ogni giorno accoglie dal tardo pomeriggio fino all’alba migliaia di turisti alla ricerca dell’ubriacatura perfetta. Senza rimorsi o sensi di colpa, perché da queste parti l’alcol è più che tollerato e il concetto di hangover è parte integrante della cultura cittadina. I nomi dei locali che si incontrano camminando lungo la via sono un programma: Temptation, Cowboy Bourbon o Sexy Bourbon, tutti sembrano promettere qualcosa. Come Hurricane city, uno dei club più gettonati. Qui anche le disgrazie diventano business. Tecnicamente lo chiamano disaster tourism. Non a caso che il «Katrina tour» è diventato il tour cittadino più richiesto.
Se si esclude il «Preservation Hall», lo storico locale del French Quartier famoso per il «traditional New Orleans Jazz», una musica dove gli strumenti a fiato si inseguono in un fitto intreccio dando origine a una festosa musica collettiva, da tempo Bourbon Street non è più il luogo ideale dove ascoltare buona musica jazz. Eppure proprio in queste strette vie menestrelli improvvisati cominciarono a suonare in gruppi detti «jass bands», dando il via a quello che è considerato uno fenomeni musicali più importanti del Novecento.
Naturalmente le dispute sulle origini del Jazz potrebbero andare avanti all’infinito, ma per avere un’idea di come qui a New Orleans il jazz abbia mosso i primi passi e capire le contaminazioni che resero possibile quel tipo di musica, bisogna superare il confine del quartiere francese, oltrepassare Rampart Street in direzione nord, dove una volta terminava la città originaria, e arrivare a Congo Square, il luogo simbolo della comunità afro-americana. Soprannominata un tempo Place des Negres, questo era il luogo dove la domenica pomeriggio agli schiavi era concesso il permesso di cantare, suonare e ballare. L’unico posto dove «gli schiavi neri potevano ancora sentirsi africani», ha detto una volta Spike Lee. Da Congo Square, dove oggi ha sede il Louis Armstrong Park, una breve camminata porta a Storyville, l’ex quartiere che a fine Ottocento si trasformò in un grande bordello a cielo aperto e nella capitale del vizio di tutti gli Stati Uniti. Un centro del divertimento e del malaffare, paradiso per delinquenti, giocatori d’azzardo e truffatori di ogni specie; e nel luogo preferito per i musicisti, che si esibivano praticamente ovunque, nei club come nelle sale da ballo, per strada ma soprattutto nei bordelli, dove facevano compagnia ai clienti in attesa e tenevano alto il morale delle prostitute. Che a loro volta ricambiavano a fine turno con laute mance.
«A Storyville ho provato ogni tipo di emozione, era incredibile. Ad ogni angolo c’era qualcuno che suonava della musica, e che musica! Sembrava che tutte quelle orchestre si sparassero addosso a vicenda con quei riff pazzeschi. Pur di andare in quel quartiere spendevo tutto quello che guadagnavo», scrive in Satchmo. La mia vita a New Orleans, Louis Armstrong, che da ragazzino aveva imparato a suonare la tromba in riformatorio ma che a Storyville si era fatto le ossa suonando con King Oliver. Poi, improvvisamente, nel 1917, Washington decise che bisognava mettere fine al quartiere del peccato e cominciò a regolamentare la prostituzione entro cinque miglia dai campi militari e i centri navali. «I ragazzi, fu deciso, potevano morire per la loro patria ma non andare a letto per essa», si legge in Memorie di una maîtresse americana, scritto all’epoca da una non meglio identificata Neil Kimball.
Con la fine di Storyville e il concomitante intervento americano nella Prima Guerra Mondiale molti musicisti del Delta furono costretti a cercare lavoro in grandi città come St. Louis o Chicago, che di fatto divennero determinanti per lo sviluppo del jazz. Altri invece rimasero in città, accontentandosi di suonare in qualche honky tonk di terz’ordine o nei funeral jazz, un’antica tradizione locale che tiene insieme riti africani e tradizione cristiana.
L’accompagnamento ai funerali da parte delle bande musicali in origine nasceva per celebrare la ritrovata libertà di uno schiavo, mentre oggi ha assunto un’accezione più universale di celebration of life per amici e parenti. Il rituale, però, non è cambiato molto: nel lungo tragitto tra casa e cimitero la band accompagna il feretro alternando nenie e inni solenni. Una volta finito il rito della sepoltura, uno squillo di tromba segnala il termine della cerimonia. A quel punto la musica cambia, si fa più incalzante, i ritmi si alzano e quello che sembrava un semplice rito funebre si trasforma in una vera e propria festa danzante, grazie anche al contributo delle cosiddette «seconde linee», spettatori che lungo la via del ritorno si uniscono alla festa per celebrare la vita del defunto. Da queste parti tutti ricordano come se fosse ieri il funeral jazz del 29 agosto 2006, quando una folla immensa celebrò, un anno dopo, le vittime dell’uragano Katrina.
La verità è che a New Orleans il legame tra la musica e la città è troppo viscerale per essere reciso, qualunque cosa accada. Si può ascoltare musica praticamente ovunque. Nei club, molti dei quali disseminati lungo Frenchman Street, la nuova via del jazz situata nel quartiere di Marigny, nelle strade, negli androni dei palazzi, nelle Chiese. Come scriveva Tennessee Williams all’inizio di Un tram chiamato desiderio, «da questa parte di New Orleans c’è sempre, a qualche porta di distanza e dietro l’angolo, un pianoforte che dita brune scorrono con soavità. Questo blue piano è l’espressione della vita che si svolge qui».
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